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PARROCCHIA S. GIROLAMO

«IL METODO DI DIO: METTERE IN GIOCO LA PROPRIA CARNE»

Non si annuncia Cristo con la propaganda, azioni di proselitismo o tecniche aziendali, ma mettendo in gioco la propria carne, cioè la propria vita con la testimonianza. Questo è il metodo del cristianesimo, il metodo che Dio usa .

Omelia di Papa Francesco a Santa Marta, 30 novembre.
Annunciare Gesù Cristo per i discepoli dei primi tempi e anche di questo tempo non è un lavoro di pubblicità: fare pubblicità per una persona molto buona, che ha fatto del bene, ha guarito tanta gente e ci ha insegnato cose belle. L’annuncio non è pubblicità, neppure è proselitismo. […] Che cosa è l’annuncio di Cristo […]? Si tratta prima di tutto, di essere inviato, ma non come il capo di una ditta a cercare nuovi soci, bensì come inviato alla missione. E il segnale proprio, che uno è inviato alla missione è quando entra in gioco la propria vita: l’apostolo, l’inviato, che porta avanti l’annuncio di Gesù Cristo lo fa a condizione che metta in gioco la propria vita, il proprio tempo, i propri interessi, la propria carne. E c’è un detto che può spiegare, un detto comune detto da gente semplice della mia terra, che dice: “per fare questo ci vuole mettere la propria carne sulla griglia”. La questione è mettersi in gioco e questo viaggio di andare all’annuncio rischiando la vita – perché io mi gioco la mia vita, la mia carne – ha soltanto il biglietto di andata, non del ritorno. […] Annuncio di Gesù Cristo con la testimonianza dunque. […] È un metodo proprio del cristianesimo. Chi lo ha inventato? Forse san Pietro o sant’Andrea? No, Dio Padre, perché è stato il proprio metodo per farsi conoscere: inviare il suo Figlio in carne, rischiando la propria vita.

IL METODO DI DIO

I ragazzi del gruppo della “Mistagogia” (coloro che hanno ricevuto i sacramenti lo scorso anno) hanno proposto ai parrocchiani, al termine della messa, i biscotti da loro cucinati assieme alle catechiste, raccogliendo offerte per la Caritas parrocchiale.
L’iniziativa è nata dalla richiesta di Michele, il quale, con altri amici, aveva partecipato alla Colletta alimentare di sabato 24 novembre, e, entusiasta per l’esperienza vissuta, aveva chiesto a Loretta di ritrovarsi col gruppo. La catechista ha colto la provocazione ed è nato questo ritrovo non programmato, in cui, dopo aver visto con don Roberto un film-documentario sul Beato Rolando Rivi, quattordicenne della nostra regione beatificato nel 2013, si sono messi a cucinare con Monica e Loretta, aiutati da Cristina.
Questo è un esempio significativo del metodo di Dio: qualcuno dà credito alla proposta di partecipare alla Colletta alimentare, i ragazzi rimangono colpiti dall’esperienza vissuta e uno di loro chiede di ritrovarsi col gruppo. La catechista, stupita di non essere lei a cercare di convincere i ragazzi a partecipare, ma del fatto che sta accadendo il contrario (è uno di loro a chiedere a lei di ricominciare...) si lascia cambiare da quello che succede...
Il cristianesimo accade così.... e si comunica solo per attrattiva.

IL DRAMMA DEL MALE: NON POSSIAMO ACCONTENTARCI DI UNA TEORIA

Ieri sera, mercoledì 28 novembre, abbiamo lavorato sul metodo di Dio, potendo comprendere alcuni episodi del Vangelo attraverso fatti e incontri di cui ricordiamo giorno ed ora (per cui, ad esempio, qualcuno di noi si riavvicina alla Chiesa in modo imprevisto e imprevedibile) i quali, a loro volta, possono essere compresi a partire dal racconto evangelico.
In questo contesto è emersa la domanda sul male, a partire dalla malattia e dalla morte di una ragazza giovanissima.
Si può rispondere ad essa con una teoria, ma, anche fosse anche quella cristiana, sarebbe una violenza disumana...
Occorre invece prendere sul serio tutto il dramma che emerge in questi fatti, occorre allargare la domanda, tenere aperta la ferita, per non accontentarsi di una idea di Dio che, in quanto idea, sarà sempre mostruosa... Occorre il drammatico rapporto con la presenza di Uno che ci vuole bene.
La prossima volta, mercoledì 12 dicembre, ci confronteremo assieme a partire dalla domanda posta dal problema del male, senza accontentarci di risposte teoriche ma giocando tutto il grido drammatico della nostra umanità..
Tutti i parrocchiani e gli amici che lo desiderano sono invitati.

IL METODO DI DIO

Continua il percorso iniziato nell’incontro di martedì 13 novembre, in cui ci siamo confrontati a partire dall’esperienza vissuta negli ultimi mesi, dall’ultimo CPP all’incontro col Vescovo, fino alla Festa parrocchiale. Ci siamo sorpresi in una familiarità nuova a partire dal fissare lo sguardo su come è accaduto per ciascuno il rapporto con Gesù.
Ora proseguiamo il cammino riscoprendo, a partire dall’esperienza vissuta, il metodo di Dio nella “semplicità e concretezza del Vangelo”:
MERCOLEDÌ 28 NOVEMBRE
ORE 21 NELLA CASA PARROCCHIALE
Possiamo invitare anche gli altri amici della Comunità parrocchiale.

COLLETTA ALIMENTARE SABATO 24 NOVEMBRE

Ricordo a tutti il gesto della Colletta di sabato, una preziosa occasione per vivere l’esperienza che la Chieda ci propone nella Giornata Mondiale dei Poveri:
in tutti i negozi alimentari che aderiscono puoi fare la spesa per aiutare chi è più povero:
Clicca sul link per saperne di più:

https://www.collettaalimentare.it

LA FEDE È QUESTIONE DI INCONTRO, NON DI TEORIA

Martedì 13 novembre abbiamo vissuto un momento di dialogo libero e intenso, in cui ci siamo sorpresi in una profondità di rapporti, la quale fiorisce dalla tensione a riconoscere una presenza misteriosa che, attraverso incontri ed eventi inaspettati, irrompe sempre in modo nuovo nella nostra vita. Ci siamo resi conto che dal lasciare spazio a questa presenza sono state generate esperienze significative, tra cui la Festa parrocchiale che abbiamo vissuto insieme il 30 settembre.

Avvertiamo sempre più urgente la necessità di andare all'origine di questa esperienza, come l'unico del gruppo di dieci lebbrosi di cui narra il Vangelo (Lc 17,11-19), il quale non si accontentò del miracolo con cui fu guarito, ma, a differenza degli altri 9, tornò a cercare Gesù e si coinvolse nel rapporto con lui.

Per questo rinnoviamo l'invito a tutti per gli altri due appuntamenti: Mercoledì 28 novembre e Mercoledì 12 dicembre, alle ore 21 nella Casa parrocchiale.

Ricordiamo la proposta della Giornata Mondiale dei Poveri, con due gesti che ci proponiamo per crescere in questa familiarità con Gesù:

- il pranzo dei poveri col Vescovo di domenica prossima, 18 novembre, per il quale si può dare la disponibilità come volontari per il servizio a tavola (rivolgersi in parrocchia, presso don Roberto o Gabriella, responsabile Caritas);

- la Colletta Alimentare di sabato 24 novembre, per la quale è ugualmente possibile dare la disponibilità come volontari per un turno di circa due ore presso uno dei negozi alimentari in cui si svolgerà questo gesto di carità che si svolge in tutta Italia.

DIALOGHI SU CIÒ CHE È ESSENZIALE PER VIVERE

Cari amici di San Girolamo,
dallo scorso anno alcuni di voi hanno espresso la domanda di essere aiutati nell’esperienza della fede.

Non si tratta di “riunioni” in più, o di riflessioni su quello che già sappiamo o crediamo di sapere, ma del desiderio di sostenerci nella nostra esistenza quotidiana, nella scoperta e nell’esperienza reale “dell’essenziale nella vita”, secondo le parole dell’omelia del Papa distribuita dopo le messe di domenica scorsa, per l’urgenza, mi dice uno di voi, “di toccare Cristo vivo”.

In queste settimane abbiamo vissuto gesti significativi nella nostra comunità... dall'ultimo CPP all’incontro col Vescovo, poi la Festa parrocchiale, il film Sully, l’uscita di inizio del catechismo, il saluto alla Capanna di Betlemme ...

Non mancano inoltre le sfide alla nostra vita, la malattia, la morte di persone care, una gioia imprevista o una fatica nel lavoro, come un dramma familiare.... Io ho negli occhi e nel cuore incontri ed eventi, vissuti qui a San Girolamo, che ridestano “il primo amore” (cfr. Ap 2,6), un’esperienza di cui ho bisogno costantemente... per vivere... senza la quale non avrebbe significato nessun gesto o iniziativa della Parrocchia.

Sono tutti fatti che ci provocano, domande urgenti e decisive... che desideriamo condividere con chiunque sia disposto a cogliere la sfida della vita.

Abbiamo individuato tre serate... dialoghi liberi con un’unica condizione: che sia a tema la nostra esperienza reale.

MARTEDÌ 13 NOVEMBRE;
MERCOLEDÌ 28 NOVEMBRE;
MERCOLEDÌ 12 DICEMBRE,

SEMPRE ALLE 21 NELLA CASA PARROCCHIALE.

Invito libero e aperto a tutti, senza alcun schema “clericale”, aperti a una verifica dell’esperienza cristiana a 360 gradi.

Un abbraccio,
don Roberto e alcuni amici della
Comunità parrocchiale

L'ESSENZIALE DELLA VITA

Dall'omelia di Papa Francesco nella S. Messa per i Cardinali e i Vescovi defunti, 3 novembre 2018.

Il Vangelo ricorda il senso di questa uscita continua che è la vita: andare incontro allo sposo. Ecco per che cosa vivere: per quell’annuncio che nel Vangelo risuona nella notte e che potremo accogliere pienamente nel momento della morte: «Ecco lo sposo, andategli incontro!» (v. 6). L’incontro con Gesù, Sposo che «ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei» (Ef 5,25), dà senso e orientamento alla vita. Non altro. È il finale che illumina ciò che precede. E come la semina si giudica dal raccolto, così il cammino della vita si imposta a partire dalla meta.

[...] Nel ministero, dietro a tutti gli incontri, le attività da organizzare e le pratiche da trattare, non va scordato il filo che unisce tutta la trama: l’attesa dello sposo. Il centro non può che essere un cuore che ama il Signore. Solo così il corpo visibile del nostro ministero sarà sorretto da un’anima invisibile. [...]

L’essenziale nella vita è ascoltare la voce dello sposo. Essa ci invita a intravedere ogni giorno il Signore che viene e a trasformare ogni attività in un preparativo per le nozze con Lui.

PAPA FRANCESCO: O SANTITÀ O NIENTE

PAPA FRANCESCO - ANGELUS NELLA SOLENNITÀ DI TUTTI I SANTI
Piazza San Pietro, Giovedì, 1° novembre 2018

[...] I santi sono vicini a noi, anzi sono i nostri fratelli e sorelle più veri. Ci capiscono, ci vogliono bene, sanno qual è il nostro vero bene, ci aiutano e ci attendono. Sono felici e ci vogliono felici con loro in paradiso.

Per questo ci invitano sulla via della felicità, indicata nel Vangelo odierno, tanto bello e conosciuto: «Beati i poveri in spirito […] Beati i miti […] Beati i puri di cuore…» (cfr Mt 5,3-8). Ma come? Il Vangelo dice beati i poveri, mentre il mondo dice beati i ricchi. Il Vangelo dice beati i miti, mentre il mondo dice beati i prepotenti. Il Vangelo dice beati i puri, mentre il mondo dice beati i furbi e i gaudenti. Questa via della beatitudine, della santità, sembra portare alla sconfitta. Eppure – ci ricorda ancora la prima Lettura – i santi tengono «rami di palma nelle mani» (v. 9), cioè i simboli della vittoria. Hanno vinto loro, non il mondo. E ci esortano a scegliere la loro parte, quella di Dio che è Santo.

Chiediamoci da che parte stiamo: quella del cielo o quella della terra? Viviamo per il Signore o per noi stessi, per la felicità eterna o per qualche appagamento ora? Domandiamoci: vogliamo davvero la santità? O ci accontentiamo di essere cristiani senza infamia e senza lode, che credono in Dio e stimano il prossimo ma senza esagerare? Il Signore «chiede tutto, e quello che offre è la vera vita - offre tutto -, la felicità per la quale siamo stati creati» (Esort. ap. Gaudete ed exsultate, 1). Insomma, o santità o niente! Ci fa bene lasciarci provocare dai santi, che qua non hanno avuto mezze misure e da là “tifano” per noi, perché scegliamo Dio, l’umiltà, la mitezza, la misericordia, la purezza, perché ci appassioniamo al cielo piuttosto che alla terra.

Oggi i nostri fratelli e sorelle non ci chiedono di sentire un’altra volta un bel Vangelo, ma di metterlo in pratica, di incamminarci sulla via delle Beatitudini. Non si tratta di fare cose straordinarie, ma di seguire ogni giorno questa via che ci porta in cielo, ci porta in famiglia, ci porta a casa. Oggi quindi intravediamo il nostro futuro e festeggiamo quello per cui siamo nati: siamo nati per non morire mai più, siamo nati per godere la felicità di Dio! Il Signore ci incoraggia e a chi imbocca la via delle Beatitudini dice: «Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli» (Mt 5,12). La Santa Madre di Dio, Regina dei santi, ci aiuti a percorrere con decisione la strada della santità; lei, che è la Porta del cielo, introduca i nostri cari defunti nella famiglia celeste.

LA FEDE È QUESTIONE DI INCONTRO, NON DI TEORIA

Scarica l'Omelia di Papa Francesco a conclusione del Sinodo in formato pdf cliccando sulla riga seguente:

Download Francesco_-_Omelia_a_conclusione_del_Sinodo_-_28.10.18.pdf

LA FEDE È QUESTIONE DI INCONTRO, NON DI TEORIA

SANTA MESSA PER LA CONCLUSIONE
DELLA XV ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA DEL SINODO DEI VESCOVI

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Basilica Vaticana, Domenica, 28 ottobre 2018

L’episodio che abbiamo ascoltato è l’ultimo che l’evangelista Marco narra del ministero itinerante di Gesù, il quale poco dopo entrerà a Gerusalemme per morire e risorgere. Bartimeo è così l’ultimo a seguire Gesù lungo la via: da mendicante ai bordi della strada a Gerico, diventa discepolo che va insieme agli altri verso Gerusalemme. Anche noi abbiamo camminato insieme, abbiamo “fatto sinodo” e ora questo Vangelo suggella tre passi fondamentali per il cammino della fede.

Anzitutto guardiamo a Bartimeo: il suo nome significa “figlio di Timeo”. E il testo lo specifica: «il figlio di Timeo, Bartimeo» (Mc 10,46). Ma, mentre il Vangelo lo ribadisce, emerge un paradosso: il padre è assente. Bartimeo giace solo lungo la strada, fuori casa e senza padre: non è amato, ma abbandonato. È cieco e non ha chi lo ascolti; e quando voleva parlare lo facevano tacere. Gesù ascolta il suo grido. E quando lo incontra lo lascia parlare. Non era difficile intuire che cosa avrebbe chiesto Bartimeo: è evidente che un cieco voglia avere o riavere la vista. Ma Gesù non è sbrigativo, dà tempo all’ascolto. Ecco il primo passo per aiutare il cammino della fede: ascoltare. È l’apostolato dell’orecchio: ascoltare, prima di parlare.

Al contrario, molti di quelli che stavano con Gesù rimproveravano Bartimeo perché tacesse (cfr v. 48). Per questi discepoli il bisognoso era un disturbo sul cammino, un imprevisto nel programma prestabilito. Preferivano i loro tempi a quelli del Maestro, le loro parole all’ascolto degli altri: seguivano Gesù, ma avevano in mente i loro progetti. È un rischio da cui guardarsi sempre. Per Gesù, invece, il grido di chi chiede aiuto non è un disturbo che intralcia il cammino, ma una domanda vitale. Quant’è importante per noi ascoltare la vita! I figli del Padre celeste prestano ascolto ai fratelli: non alle chiacchiere inutili, ma ai bisogni del prossimo. Ascoltare con amore, con pazienza, come fa Dio con noi, con le nostre preghiere spesso ripetitive. Dio non si stanca mai, gioisce sempre quando lo cerchiamo. Chiediamo anche noi la grazia di un cuore docile all’ascolto. Vorrei dire ai giovani, a nome di tutti noi adulti: scusateci se spesso non vi abbiamo dato ascolto; se, anziché aprirvi il cuore, vi abbiamo riempito le orecchie. Come Chiesa di Gesù desideriamo metterci in vostro ascolto con amore, certi di due cose: che la vostra vita è preziosa per Dio, perché Dio è giovane e ama i giovani; e che la vostra vita è preziosa anche per noi, anzi necessaria per andare avanti.

Dopo l’ascolto, un secondo passo per accompagnare il cammino di fede: farsi prossimi. Guardiamo Gesù, che non delega qualcuno della «molta folla» che lo seguiva, ma incontra Bartimeo di persona. Gli dice: «Che cosa vuoi che io faccia per te?» (v. 51). Che cosa vuoi: Gesù si immedesima in Bartimeo, non prescinde dalle sue attese; che io faccia: fare, non solo parlare; per te: non secondo idee prefissate per chiunque, ma per te, nella tua situazione. Ecco come fa Dio, coinvolgendosi in prima persona con un amore di predilezione per ciascuno. Nel suo modo di fare già passa il suo messaggio: così la fede germoglia nella vita.

La fede passa per la vita. Quando la fede si concentra puramente sulle formulazioni dottrinali, rischia di parlare solo alla testa, senza toccare il cuore. E quando si concentra solo sul fare, rischia di diventare moralismo e di ridursi al sociale. La fede invece è vita: è vivere l’amore di Dio che ci ha cambiato l’esistenza. Non possiamo essere dottrinalisti o attivisti; siamo chiamati a portare avanti l’opera di Dio al modo di Dio, nella prossimità: stretti a Lui, in comunione tra noi, vicini ai fratelli. Prossimità: ecco il segreto per trasmettere il cuore della fede, non qualche aspetto secondario.

Farsi prossimi è portare la novità di Dio nella vita del fratello, è l’antidoto contro la tentazione delle ricette pronte. Chiediamoci se siamo cristiani capaci di diventare prossimi, di uscire dai nostri circoli per abbracciare quelli che “non sono dei nostri” e che Dio ardentemente cerca. C’è sempre quella tentazione che ricorre tante volte nella Scrittura: lavarsi le mani. È quello che fa la folla nel Vangelo di oggi, è quello che fece Caino con Abele, è quello che farà Pilato con Gesù: lavarsi le mani. Noi invece vogliamo imitare Gesù, e come lui sporcarci le mani. Egli, la via (cfr Gv 14,6), per Bartimeo si è fermato lungo la strada; Egli, la luce del mondo (cfr Gv 9,5), si è chinato su un cieco. Riconosciamo che il Signore si è sporcato le mani per ciascuno di noi, e guardando la croce ripartiamo da lì, dal ricordarci che Dio si è fatto mio prossimo nel peccato e nella morte. Si è fatto mio prossimo: tutto comincia da lì. E quando per amore suo anche noi ci facciamo prossimi diventiamo portatori di vita nuova: non maestri di tutti, non esperti del sacro, ma testimoni dell’amore che salva.

Testimoniare è il terzo passo. Guardiamo i discepoli che chiamano Bartimeo: non vanno da lui, che mendicava, con un’acquietante monetina o a dispensare consigli; vanno nel nome di Gesù. Infatti gli rivolgono solo tre parole, tutte di Gesù: «Coraggio! Alzati. Ti chiama» (v. 49). Solo Gesù nel resto del Vangelo dice coraggio!, perché solo Lui risuscita il cuore. Solo Gesù nel Vangelo dice alzati, per risanare lo spirito e il corpo. Solo Gesù chiama, cambiando la vita di chi lo segue, rimettendo in piedi chi è a terra, portando la luce di Dio nelle tenebre della vita. Tanti figli, tanti giovani, come Bartimeo cercano una luce nella vita. Cercano amore vero. E come Bartimeo, nonostante la molta gente, invoca solo Gesù, così anch’essi invocano vita, ma spesso trovano solo promesse fasulle e pochi che si interessano davvero a loro.

Non è cristiano aspettare che i fratelli in ricerca bussino alle nostre porte; dovremo andare da loro, non portando noi stessi, ma Gesù. Egli ci manda, come quei discepoli, a incoraggiare e rialzare nel suo nome. Ci manda a dire ad ognuno: “Dio ti chiede di lasciarti amare da Lui”. Quante volte, invece di questo liberante messaggio di salvezza, abbiamo portato noi stessi, le nostre “ricette”, le nostre “etichette” nella Chiesa! Quante volte, anziché fare nostre le parole del Signore, abbiamo spacciato per parola sua le nostre idee! Quante volte la gente sente più il peso delle nostre istituzioni che la presenza amica di Gesù! Allora passiamo per una ONG, per una organizzazione parastatale, non per la comunità dei salvati che vivono la gioia del Signore.

Ascoltare, farsi prossimi, testimoniare. Il cammino di fede nel Vangelo termina in modo bello e sorprendente, con Gesù che dice: «Va’, la tua fede ti ha salvato» (v. 52). Eppure Bartimeo non ha fatto professioni di fede, non ha compiuto alcuna opera; ha solo chiesto pietà. Sentirsi bisognosi di salvezza è l’inizio della fede. È la via diretta per incontrare Gesù. La fede che ha salvato Bartimeo non stava nelle sue idee chiare su Dio, ma nel cercarlo, nel volerlo incontrare. La fede è questione di incontro, non di teoria. Nell’incontro Gesù passa, nell’incontro palpita il cuore della Chiesa. Allora non le nostre prediche, ma la testimonianza della nostra vita sarà efficace.

E a tutti voi che avete partecipato a questo “camminare insieme”, dico grazie per la vostra testimonianza. Abbiamo lavorato in comunione e con franchezza, col desiderio di servire Dio e il suo popolo. Il Signore benedica i nostri passi, perché possiamo ascoltare i giovani, farci prossimi e testimoniare loro la gioia della nostra vita: Gesù.





O TUTTO O NIENTE: GESÙ DÀ TUTTO E CHIEDE TUTTO

Omelia di Papa Francesco nella Santa Messa per la canonizzazione dei Beati Paolo VI e Oscar Romero.

La seconda Lettura ci ha detto che «la parola di Dio è viva, efficace e tagliente» (Eb 4,12). È proprio così: la Parola di Dio non è solo un insieme di verità o un edificante racconto spirituale, no, è Parola viva, che tocca la vita, che la trasforma. Lì Gesù in persona, Lui che è la Parola vivente di Dio, parla ai nostri cuori.

Il Vangelo, in particolare, ci invita all’incontro con il Signore, sull’esempio di quel «tale» che «gli corse incontro» (cfr Mc 10,17). Possiamo immedesimarci in quell’uomo, di cui il testo non dice il nome, quasi a suggerire che possa rappresentare ciascuno di noi. Egli domanda a Gesù come «avere in eredità la vita eterna» (v. 17). Chiede la vita per sempre, la vita in pienezza: chi di noi non la vorrebbe? Ma, notiamo, la chiede come un’eredità da avere, come un bene da ottenere, da conquistare con le sue forze. Infatti, per possedere questo bene ha osservato i comandamenti fin dall’infanzia e per raggiungere lo scopo è disposto a osservarne altri; per questo chiede: «Che cosa devo fare per avere?».

La risposta di Gesù lo spiazza. Il Signore fissa lo sguardo su di lui e lo ama (cfr v. 21). Gesù cambia prospettiva: dai precetti osservati per ottenere ricompense all’amore gratuito e totale. Quel tale parlava nei termini di domanda e offerta, Gesù gli propone una storia di amore. Gli chiede di passare dall’osservanza delle leggi al dono di sé, dal fare per sé all’essere con Lui. E gli fa una proposta di vita “tagliente”: «Vendi quello che hai e dallo ai poveri […] e vieni! Seguimi!» (v. 21). Anche a te Gesù dice: “vieni, seguimi!”. Vieni: non stare fermo, perché non basta non fare nulla di male per essere di Gesù. Seguimi: non andare dietro a Gesù solo quando ti va, ma cercalo ogni giorno; non accontentarti di osservare dei precetti, di fare un po’ di elemosina e dire qualche preghiera: trova in Lui il Dio che ti ama sempre, il senso della tua vita, la forza di donarti.

Ancora Gesù dice: «Vendi quello che hai e dallo ai poveri». Il Signore non fa teorie su povertà e ricchezza, ma va diretto alla vita. Ti chiede di lasciare quello che appesantisce il cuore, di svuotarti di beni per fare posto a Lui, unico bene. Non si può seguire veramente Gesù quando si è zavorrati dalle cose. Perché, se il cuore è affollato di beni, non ci sarà spazio per il Signore, che diventerà una cosa tra le altre. Per questo la ricchezza è pericolosa e – dice Gesù – rende difficile persino salvarsi. Non perché Dio sia severo, no! Il problema è dalla nostra parte: il nostro troppo avere, il nostro troppo volere ci soffocano, ci soffocano il cuore e ci rendono incapaci di amare. Perciò San Paolo ricorda che «l’avidità del denaro è la radice di tutti i mali» (1 Tm 6,10). Lo vediamo: dove si mettono al centro i soldi non c’è posto per Dio e non c’è posto neanche per l’uomo.

Gesù è radicale. Egli dà tutto e chiede tutto: dà un amore totale e chiede un cuore indiviso. Anche oggi si dà a noi come Pane vivo; possiamo dargli in cambio le briciole? A Lui, fattosi nostro servo fino ad andare in croce per noi, non possiamo rispondere solo con l’osservanza di qualche precetto. A Lui, che ci offre la vita eterna, non possiamo dare qualche ritaglio di tempo. Gesù non si accontenta di una “percentuale di amore”: non possiamo amarlo al venti, al cinquanta o al sessanta per cento. O tutto o niente.

Cari fratelli e sorelle, il nostro cuore è come una calamita: si lascia attirare dall’amore, ma può attaccarsi da una parte sola e deve scegliere: o amerà Dio o amerà la ricchezza del mondo (cfr Mt 6,24); o vivrà per amare o vivrà per sé (cfr Mc 8,35). Chiediamoci da che parte stiamo. Chiediamoci a che punto siamo nella nostra storia di amore con Dio. Ci accontentiamo di qualche precetto o seguiamo Gesù da innamorati, veramente disposti a lasciare qualcosa per Lui? Gesù interroga ciascuno di noi e tutti noi come Chiesa in cammino: siamo una Chiesa che soltanto predica buoni precetti o una Chiesa-sposa, che per il suo Signore si lancia nell’amore? Lo seguiamo davvero o ritorniamo sui passi del mondo, come quel tale? Insomma, ci basta Gesù o cerchiamo tante sicurezze del mondo? Chiediamo la grazia di saper lasciare per amore del Signore: lasciare ricchezze, lasciare nostalgie di ruoli e poteri, lasciare strutture non più adeguate all’annuncio del Vangelo, i pesi che frenano la missione, i lacci che ci legano al mondo. Senza un salto in avanti nell’amore la nostra vita e la nostra Chiesa si ammalano di «autocompiacimento egocentrico» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 95): si cerca la gioia in qualche piacere passeggero, ci si rinchiude nel chiacchiericcio sterile, ci si adagia nella monotonia di una vita cristiana senza slancio, dove un po’ di narcisismo copre la tristezza di rimanere incompiuti.

Fu così per quel tale, che – dice il Vangelo – «se ne andò rattristato» (v. 22). Si era ancorato ai precetti e ai suoi molti beni, non aveva dato il cuore. E, pur avendo incontrato Gesù e ricevuto il suo sguardo d’amore, se ne andò triste. La tristezza è la prova dell’amore incompiuto. È il segno di un cuore tiepido. Invece, un cuore alleggerito di beni, che libero ama il Signore, diffonde sempre la gioia, quella gioia di cui oggi c’è grande bisogno. Il santo Papa Paolo VI scrisse: «È nel cuore delle loro angosce che i nostri contemporanei hanno bisogno di conoscere la gioia, di sentire il suo canto» (Esort. ap. Gaudete in Domino, I). Gesù oggi ci invita a ritornare alle sorgenti della gioia, che sono l’incontro con Lui, la scelta coraggiosa di rischiare per seguirlo, il gusto di lasciare qualcosa per abbracciare la sua via. I santi hanno percorso questo cammino.

L’ha fatto Paolo VI, sull’esempio dell’Apostolo del quale assunse il nome. Come lui ha speso la vita per il Vangelo di Cristo, valicando nuovi confini e facendosi suo testimone nell’annuncio e nel dialogo, profeta di una Chiesa estroversa che guarda ai lontani e si prende cura dei poveri. Paolo VI, anche nella fatica e in mezzo alle incomprensioni, ha testimoniato in modo appassionato la bellezza e la gioia di seguire Gesù totalmente. Oggi ci esorta ancora, insieme al Concilio di cui è stato il sapiente timoniere, a vivere la nostra comune vocazione: la vocazione universale alla santità. Non alle mezze misure, ma alla santità. È bello che insieme a lui e agli altri santi e sante odierni ci sia Mons. Romero, che ha lasciato le sicurezze del mondo, persino la propria incolumità, per dare la vita secondo il Vangelo, vicino ai poveri e alla sua gente, col cuore calamitato da Gesù e dai fratelli. Lo stesso possiamo dire di Francesco Spinelli, di Vincenzo Romano, di Maria Caterina Kasper, di Nazaria Ignazia di Santa Teresa di Gesù e anche del nostro ragazzo abruzzese-napoletano, Nunzio Sulprizio: il santo giovane, coraggioso, umile che ha saputo incontrare Gesù nella sofferenza, nel silenzio e nell'offerta di sé stesso. Tutti questi santi, in diversi contesti, hanno tradotto con la vita la Parola di oggi, senza tiepidezza, senza calcoli, con l’ardore di rischiare e di lasciare. Fratelli e sorelle, il Signore ci aiuti a imitare i loro esempi.

OMELIA DEL PAPA A SANTA MARTA: CRISTIANI ABITUATI

Il Papa ci ricorda che occorre guardare agli ultimi arrivati, scoprire cosa accade a quei pagani che si convertono mentre noi, “abituati”, “viviamo il cristianesimo formalmente”, affinché possiamo rinnovare l’esperienza del “rapporto personale con Gesù”.

Omelia a Santa Marta, 5 ottobre.
Gesù rimprovera tre città (Cfr. Lc 10,13-16) – Betsàida, Corazìn, Cafarnao – perché avendolo lì, vedendo i suoi prodigi […] non fanno il passo di riconoscerlo come Messia. […] Ognuno pensi alla propria vita. Che ho ricevuto tanto dal Signore. Sono nato in una società cristiana, ho conosciuto Gesù Cristo, ho conosciuto la salvezza, sono stato educato, educata, alla fede. E con quanta facilità mi dimentico, e lascio passare Gesù. Un atteggiamento che contrasta con quello di altra gente che subito ascolta l’annuncio di Gesù, si converte e lo segue. Invece noi siamo “abituati”. E quest’abitudine ci fa male, perché riduciamo il Vangelo a un fatto sociale, sociologico, e non a un rapporto personale con Gesù. […] Come mai quei pagani che, appena sentono la predica di Gesù, vanno con lui, e io che sono nato, sono nata, qui, in una società cristiana, e per me il cristianesimo è come fosse un’abitudine sociale, una veste che ho indosso e poi la lascio? È così che Gesù piange su ognuno di noi quando noi viviamo il cristianesimo formalmente, almeno non realmente.[…] In sostanza quando noi facciamo questo, cerchiamo di gestire noi il rapporto con Gesù. È come se gli dicessimo: “Sì, io vado alla messa ma tu fermati nella chiesa che io poi vado a casa” […]. Facciamo finta di averlo con noi, ma lo abbiamo cacciato via. Siamo cristiani, fieri di essere cristiani, ma viviamo come pagani.

SOLENNITÀ DI SAN GAUDENZO PATRONO DELLA CITTÀ E DELLA DIOCESI DI RIMINI

Cliccando sulla riga seguente si può scaricare il manifesto della Festa di San Gaudenzo con i vari gesti e orari:

Download Manifesto_San_Gaudenzo_2018_con_Assemblea.pdf

UN GIOVANE PUÒ ANCORA INTERESSARSI A CRISTO?

Si può scaricare (in formato pdf) la pagina dedicata ai giovani della nostra Parrocchia di San Girolamo sul settimanale diocesano "Il Ponte" della scorsa settimana, cliccando sulla riga seguente:

Download Il_Ponte_del_30.09.18_p._13.pdf

PAPA FRANCESCO: «RECITIAMO IL ROSARIO PER L'UNITÀ DELLA CHIESA»

Il Santo Padre ha deciso di invitare tutti i fedeli, di tutto il mondo, a pregare il Santo Rosario ogni giorno, durante l’intero mese mariano di ottobre; e a unirsi così in comunione e in penitenza, come popolo di Dio, nel chiedere alla Santa Madre di Dio e a San Michele Arcangelo di proteggere la Chiesa dal diavolo, che sempre mira a dividerci da Dio e tra di noi.

Nei giorni scorsi, prima della sua partenza per i Paesi Baltici, il Santo Padre ha incontrato padre Fréderic Fornos S.I., direttore internazionale della Rete Mondiale di Preghiera per il Papa; e gli ha chiesto di diffondere in tutto il mondo questo suo appello a tutti i fedeli, invitandoli a concludere la recita del Rosario con l’antica invocazione “Sub tuum praesídium”, e con l’invocazione a San Michele Arcangelo che ci protegge e aiuta nella lotta contro il male (cfr. Apocalisse 12, 7-12).

La preghiera – ha affermato il Pontefice pochi giorni fa, l’11 settembre, in un’omelia a Santa Marta, citando il primo capitolo del Libro di Giobbe – è l’arma contro il grande accusatore che “gira per il mondo cercando come accusare”. Solo la preghiera lo può sconfiggere. I mistici russi e i grandi santi di tutte le tradizioni consigliavano, nei momenti di turbolenza spirituale, di proteggersi sotto il manto della Santa Madre di Dio pronunciando l’invocazione “Sub tuum praesídium”.

L’invocazione “Sub tuum praesídium” recita così:

“Sub tuum praesídium confúgimus,
sancta Dei Génetrix;
nostras deprecatiónes ne despícias in necessitátibus,
sed a perículis cunctis líbera nos semper,
Virgo gloriósa et benedícta”.

[Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, santa Madre di Dio: non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, e liberaci da ogni pericolo, o vergine gloriosa e benedetta.]

Con questa richiesta di intercessione, il Santo Padre chiede ai fedeli di tutto il mondo di pregare perché la santa Madre di Dio ponga la Chiesa sotto il suo manto protettivo: per preservarla dagli attacchi del maligno, il grande accusatore, e renderla allo stesso tempo sempre più consapevole delle colpe, degli errori, degli abusi commessi nel presente e nel passato, e impegnata a combattere senza nessuna esitazione affinché il male non prevalga.

Il Santo Padre ha chiesto anche che la recita del Santo Rosario durante il mese di ottobre si concluda con la preghiera scritta da Leone XIII:

“Sancte Míchael Archángele, defénde nos in próelio;
contra nequítiam et insídias diáboli esto praesídium.
Imperet illi Deus, súpplices deprecámur,
tuque, Prínceps milítiae caeléstis,
Sátanam aliósque spíritus malígnos,
qui ad perditiónem animárum pervagántur in mundo,
divína virtúte, in inférnum detrúde. Amen”.

[San Michele Arcangelo, difendici nella lotta, sii nostro presidio contro le malvagità e le insidie del demonio. Capo supremo delle milizie celesti, fa’ sprofondare nell’inferno, con la forza di Dio, Satana e gli altri spiriti maligni che vagano per il mondo per la perdizione delle anime. Amen.]

Sala Stampa della Santa Sede, 29.09.2018

Scarica il Comunicato della Sala stampa della Santa Sede cliccando sulla riga seguente:

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SUPERIAMO L’AUTOREFERENZIALITÀ LASCIANDOCI SORPRENDERE DA DIO

Papa Francesco prima dell’Angelus di ieri:

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il Vangelo di questa domenica (cfr Mc 9,38-43.45.47-48) ci presenta uno di quei particolari molto istruttivi della vita di Gesù con i suoi discepoli. Questi avevano visto che un uomo, il quale non faceva parte del gruppo dei seguaci di Gesù, scacciava i demoni nel nome di Gesù, e perciò volevano proibirglielo. Giovanni, con l’entusiasmo zelante tipico dei giovani, riferisce la cosa al Maestro cercando il suo appoggio; ma Gesù, al contrario, risponde: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi» (vv. 39-40).

Giovanni e gli altri discepoli manifestano un atteggiamento di chiusura davanti a un avvenimento che non rientra nei loro schemi, in questo caso l’azione, pur buona, di una persona “esterna” alla cerchia dei seguaci. Invece Gesù appare molto libero, pienamente aperto alla libertà dello Spirito di Dio, che nella sua azione non è limitato da alcun confine e da alcun recinto. Gesù vuole educare i suoi discepoli, anche noi oggi, a questa libertà interiore.

Ci fa bene riflettere su questo episodio, e fare un po’ di esame di coscienza. L’atteggiamento dei discepoli di Gesù è molto umano, molto comune, e lo possiamo riscontrare nelle comunità cristiane di tutti i tempi, probabilmente anche in noi stessi. In buona fede, anzi, con zelo, si vorrebbe proteggere l’autenticità di una certa esperienza, tutelando il fondatore o il leader dai falsi imitatori. Ma al tempo stesso c’è come il timore della “concorrenza” – e questo è brutto: il timore della concorrenza –, che qualcuno possa sottrarre nuovi seguaci, e allora non si riesce ad apprezzare il bene che gli altri fanno: non va bene perché “non è dei nostri”, si dice. E’ una forma di autoreferenzialità. Anzi, qui c’è la radice del proselitismo. E la Chiesa – diceva Papa Benedetto – non cresce per proselitismo, cresce per attrazione, cioè cresce per la testimonianza data agli altri con la forza dello Spirito Santo.

La grande libertà di Dio nel donarsi a noi costituisce una sfida e una esortazione a modificare i nostri atteggiamenti e i nostri rapporti. È l’invito che ci rivolge Gesù oggi. Egli ci chiama a non pensare secondo le categorie di “amico/nemico”, “noi/loro”, “chi è dentro/chi è fuori”, “mio/tuo”, ma ad andare oltre, ad aprire il cuore per poter riconoscere la sua presenza e l’azione di Dio anche in ambiti insoliti e imprevedibili e in persone che non fanno parte della nostra cerchia. Si tratta di essere attenti più alla genuinità del bene, del bello e del vero che viene compiuto, che non al nome e alla provenienza di chi lo compie. E – come ci suggerisce la restante parte del Vangelo di oggi – invece di giudicare gli altri, dobbiamo esaminare noi stessi, e “tagliare” senza compromessi tutto ciò che può scandalizzare le persone più deboli nella fede.

La Vergine Maria, modello di docile accoglienza delle sorprese di Dio, ci aiuti a riconoscere i segni della presenza del Signore in mezzo a noi, scoprendolo dovunque Egli si manifesti, anche nelle situazioni più impensabili e inconsuete. Ci insegni ad amare la nostra comunità senza gelosie e chiusure, sempre aperti all’orizzonte vasto dell’azione dello Spirito Santo.

COSA CI FA VIVERE?

Omelia nella XXVI Domenica del T.O. – Festa della Parrocchia San Girolamo, 30 settembre 2018

Ieri mattina siamo andati ad attendere l’alba con le due classi quinte delle Scuole elementari della Karis di Riccione, in cui insegno. È accaduto tante volte di aiutare i bambini ad aspettare il sorgere del sole, ma ogni volta è una sorpresa. Sì, la sorpresa di esserci; lo stupore per Qualcuno che ti precede e ti regala la vita ogni giorno. C’è Uno che mi sta creando in questo istante, in modo poco “democratico”, senza chiedermi il permesso di farmi nascere, con un gesto totalmente gratuito.
Dicendo queste cose ai bambini mi è venuto in mente un episodio di qualche giorno fa, accaduto nella sala docenti dell’Istituto Alberghiero, dove pure insegno, quando un professore, che si dichiara non credente, gridava a tutti: «Non è giusto, dovevano venirmi a domandare se volevo venire in questo mondo, e nessuno lo ha fatto!». Qui sta il mistero del nostro esistere: ci siamo e non ci facciamo da soli. Qualcuno ci ha tratto dal nulla, senza chiedere la nostra preventiva autorizzazione, e continua a crearci in questo istante, anche quando noi lo dimentichiamo o lo rifiutiamo.
Come siamo voluti e amati! La vita si decide nel dramma di questo rapporto.
In occasione della Festa parrocchiale, una pagina del nostro settimanale diocesano Il Ponte è dedicata ai giovani della nostra parrocchia. Mi colpiscono i loro contributi, che vi invito a leggere, perché sono una provocazione anche per noi adulti. Elena sottolinea che, per interessarsi a Cristo, occorre prendere sul serio questo «sentimento di incompletezza» che fa parte della nostra umanità. Alice, raccontando l’incontro che l’ha riavvicinata all’esperienza della Chiesa, dice che «è stata decisiva quella domanda: “rispetto a questa tua ferita, un anno in più, dieci anni in più di vita di tuo nonno, ti sarebbero bastati?”. Ho capito cosa desideravo, cercavo qualcosa di infinito».
Nell’incontro col nostro Vescovo, l’altro ieri sera, ci siamo chiesti, riprendendo le sue stesse parole: «ci può bastare il conformismo, l’attivismo, il devozionalismo?». «Siamo una comunità “del fare” – sottolineava ancora il Vescovo – o stiamo puntando sulla vetta della santità?». Rispetto alla domanda infinita di cui parlano queste ragazze, ci può bastare quello che possiamo fare noi, con il nostro impegno organizzativo o con le nostre pratiche di devozione? Quando sei di fronte a una persona cara che sta morendo o che è gravemente ammalata, puoi accontentarti del tuo attivismo o del tuo moralismo? Quando brucia il desiderio inesauribile del nostro cuore, che vibra in ogni brandello della nostra carne, ti puoi accontentare di un gruppo o di una associazione, di un ruolo nella comunità? Neppure la carriera ecclesiastica, come testimoniava il Vescovo raccontando la propria esperienza, può corrispondere a questo desiderio infinito.
Il Papa ci ricorda con forza che «il primo modo di morire [per una comunità ecclesiale] è quello di dare per scontate le “sorgenti”, cioè Chi muove la Missione». Senza partire da Gesù Cristo la Chiesa si riduce «all’efficientismo degli apparati di partito», con la conseguenza che, in questo modo, «è già morta, anche se le strutture e i programmi a favore dei chierici e dei laici “auto-occupati” dovessero durare ancora per secoli» (Discorso all’assemblea generale delle Pontificie Opere Missionarie, 05.96.15). Il clericalismo di preti e laici nasce proprio quando si ripone la propria consistenza nel «funzionalismo manageriale» e nella «Chiesa come organizzazione», dimenticando la vita concreta del «Popolo di Dio» (Evangelii gaudium, 95).
Cos’è invece la Chiesa? Ce lo mostra l’episodio narrato nel brano del Vangelo di Marco proclamato nella liturgia di oggi: «“Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva”. Ma Gesù disse: “Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi”(Mc 9,38-40)».
La Chiesa non può essere ridotta ad una comunità chiusa e autoreferenziale, perché è costituita dalla sorpresa continua dell’agire di Cristo, che opera in maniera inaspettata, senza curarsi del nostro clericalismo, per cui dovrebbe sempre rientrare tutto nei nostri schemi.
Nell’articolo su Il Ponte io racconto fatti e incontri che mi sorprendono e innanzitutto segnano la mia vita. Nel cristianesimo non c’è schema ma solo un avvenimento, una Presenza umana da accogliere e con la quale compromettersi, seguendo questi fatti e questi incontri.
Non si tratta di idee da condividere o no: nessuno decide di credere perché è d’accordo o, al contrario, se ne va perché non condivide delle teorie o dei concetti. Questi sono alibi che nascondono il vero dramma: una Presenza in carne ed ossa che entra nella tua vita e cambia tutto.
Il punto non è una dottrina da condividere o una morale da osservare, ma una Presenza carnale con cui compromettersi, secondo la semplicità così concreta del Vangelo.
Lo si vede bene tra noi: qualcuno è lieto perché sta cambiando la sua vita, e asseconda quello che gli sta accadendo; qualcun altro, tristemente, prende a pretesto dei particolari per non coinvolgersi. Le stesse cose affascinano l’uno e trovano resistenza in un altro. Lo si legge nel Vangelo: stessi miracoli, alcuni clamorosi ed evidenti, reazioni opposte. Occorre una lealtà col desiderio del proprio cuore, senza accontentarsi,. Leggete quella pagina, i nostri giovani cercano questo: luoghi che prendano sul serio le nostre domande e i nostri desideri, rapporti che non censurano la nostra umanità. Il problema non è chi ha ragione, ma cosa ci fa vivere.
Questa è una posizione fino in fondo laica e lontana da ogni clericalismo, nel quale invece tante volte ci rifugiamo, cercando la sicurezza in quello che pensiamo di dominare con le nostre forze.
Dobbiamo ricuperare questa laicità, cioè prendere sul serio la nostra umanità.
Occorre una semplicità di cuore per lasciarsi afferrare da Cristo senza opporre “scandali”: quello che ti scandalizza – ossia la barriera che metti tra te e la Presenza in carne ed ossa di Gesù, il quale ti viene incontro attraverso i nostri volti umani – taglialo, senza esitazioni (cfr. Mc 9,43-48).
Natalia parla di Gesù come «un Amore senza il quale non potrei più vivere».
E tu, di cosa hai veramente bisogno per vivere?

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INCONTRO CON IL NOSTRO VESCOVO FRANCESCO

Nell'ultima riunione del Consiglio pastorale abbiamo lavorato sui contenuti della Lettera del Vescovo, in vista del nuovo anno pastorale.

E' stato un dialogo intenso sull'esperienza che stiamo vivendo, a partire dall'affermazione del Papa: "Noi non abbiamo un prodotto da vendere, ma una vita da comunicare. E’ lo Spirito Santo che porta avanti la Chiesa, non noi!”.

Per la bellezza del momento vissuto, desideriamo condividere e approfondire il dialogo con tutti gli amici della comunità parrocchiale e al nostro stesso Vescovo Francesco, che sarà con noi:

VENERDI' 28 SETTEMBRE ALLE ORE 21 NEL TEATRO PARROCCHIALE

SIAMO TUTTI INVITATI!

LA SANTITÀ CHE DIO COMPIE IN NOI

Due brani da recenti Discorsi di Papa Francesco:

Di fronte ai fatti in cui “Dio è stato così reso muto” occorre la “santità che Dio compie in noi”, che si realizza “toccando la sua carne”.

Ai Vescovi di recente nomina, 13 settembre.
Non serve la contabilità delle nostre virtù, né un programma di ascesi, una palestra di sforzi personali […] come se la santità fosse frutto della sola volontà. […] Prima ancora che noi esistessimo, Dio c’era e ci amava. La santità è toccare questa carne di Dio che ci precede. […] Le nostre risposte saranno prive di futuro se non raggiungeranno la voragine spirituale che, in non pochi casi, ha permesso scandalose debolezze, se non metteranno a nudo il vuoto esistenziale che esse hanno alimentato, se non riveleranno perché mai Dio è stato così reso muto, così messo a tacere, così rimosso da un certo modo di vivere, come se non ci fosse. […] Non serve puntare solo il dito sugli altri, fabbricare capri espiatori, stracciarsi le vesti, scavare nella debolezza altrui […]. Qui è necessario lavorare insieme e in comunione, certi però che l’autentica santità è quella che Dio compie in noi, quando docili al suo Spirito ritorniamo alla gioia semplice del Vangelo.

Ai sacerdoti e religiosi di Palermo, 15 settembre.
La gente non si scandalizza quando vede che il prete “scivola”, è un peccatore, si pente e va avanti… Lo scandalo della gente è quando vede preti mondani, con lo spirito del mondo. Lo scandalo della gente è quando trova nel prete un funzionario, non un pastore. […] Si possono fare tante discussioni sul rapporto Chiesa-mondo e Vangelo-storia, ma non serve se il Vangelo non passa prima dalla propria vita.

MISERICORDIA E LIBERTÀ

Papa Francesco - Catechesi nell'Udienza generale

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nella catechesi di oggi torniamo ancora sul terzo comandamento, quello sul giorno del risposo. Il Decalogo, promulgato nel libro dell’Esodo, viene ripetuto nel libro del Deuteronomio in modo pressoché identico, ad eccezione di questa Terza Parola, dove compare una preziosa differenza: mentre nell’Esodo il motivo del riposo è la benedizione della creazione, nel Deuteronomio, invece, esso commemora la fine della schiavitù. In questo giorno lo schiavo si deve riposare come il padrone, per celebrare la memoria della Pasqua di liberazione.

Gli schiavi, infatti, per definizione non possono riposare. Ma esistono tanti tipi di schiavitù, sia esteriore che interiore. Ci sono le costrizioni esterne come le oppressioni, le vite sequestrate dalla violenza e da altri tipi di ingiustizia. Esistono poi le prigionie interiori, che sono, ad esempio, i blocchi psicologici, i complessi, i limiti caratteriali e altro. Esiste riposo in queste condizioni? Un uomo recluso o oppresso può restare comunque libero? E una persona tormentata da difficoltà interiori può essere libera?

In effetti, ci sono persone che, persino in carcere, vivono una grande libertà d’animo. Pensiamo, ad esempio, a San Massimiliano Kolbe, o al Cardinale Van Thuan, che trasformarono delle oscure oppressioni in luoghi di luce. Come pure ci sono persone segnate da grandi fragilità interiori che però conoscono il riposo della misericordia e lo sanno trasmettere. La misericordia di Dio ci libera. E quando tu ti incontri con la misericordia di Dio, hai una libertà interiore grande e sei anche capace di trasmetterla. Per questo è tanto importante aprirsi alla misericordia di Dio per non essere schiavi di noi stessi.

Che cos’è dunque la vera libertà? Consiste forse nella libertà di scelta? Certamente questa è una parte della libertà, e ci impegniamo perché sia assicurata ad ogni uomo e donna (cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 73). Ma sappiamo bene che poter fare ciò che si desidera non basta per essere veramente liberi, e nemmeno felici. La vera libertà è molto di più.

Infatti, c’è una schiavitù che incatena più di una prigione, più di una crisi di panico, più di una imposizione di qualsiasi genere: è la schiavitù del proprio ego.[1] Quella gente che tutta la giornata si specchia per vedere l’ego. E il proprio ego ha una statura più alta del proprio corpo. Sono schiavi dell’ego. L’ego può diventare un aguzzino che tortura l’uomo ovunque sia e gli procura la più profonda oppressione, quella che si chiama “peccato”, che non è banale violazione di un codice, ma fallimento dell’esistenza e condizione di schiavi (cfr Gv 8,34).[2] Il peccato è, alla fine, dire e fare ego. “Io voglio fare questo e non mi importa se c’è un limite, se c’è un comandamento, neppure mi importa se c’è l’amore”.

L’ego, per esempio, pensiamo nelle passioni umane: il goloso, il lussurioso, l’avaro, l’iracondo, l’invidioso, l’accidioso, il superbo – e così via – sono schiavi dei loro vizi, che li tiranneggiano e li tormentano. Non c’è tregua per il goloso, perché la gola è l’ipocrisia dello stomaco, che è pieno ma ci fa credere che è vuoto. Lo stomaco ipocrita ci fa golosi. Siamo schiavi di uno stomaco ipocrita. Non c’è tregua per il goloso e il lussurioso che devono vivere di piacere; l’ansia del possesso distrugge l’avaro, sempre ammucchiano soldi, facendo male agli altri; il fuoco dell’ira e il tarlo dell’invidia rovinano le relazioni. Gli scrittori dicono che l’invidia fa venire giallo il corpo e l’anima, come quando una persona ha l’epatite: diventa gialla. Gli invidiosi hanno gialla l’anima, perché mai possono avere la freschezza della salute dell’anima. L’invidia distrugge. L’accidia che scansa ogni fatica rende incapaci di vivere; l’egocentrismo – quell’ego di cui parlavo - superbo scava un fosso fra sé e gli altri.

Cari fratelli e sorelle, chi è dunque il vero schiavo? Chi è colui che non conosce riposo? Chi non è capace di amare! E tutti questi vizi, questi peccati, questo egoismo ci allontanano dall’amore e ci fanno incapaci di amare. Siamo schiavi di noi stessi e non possiamo amare, perché l’amore è sempre verso gli altri.

Il terzo comandamento, che invita a celebrare nel riposo la liberazione, per noi cristiani è profezia del Signore Gesù, che spezza la schiavitù interiore del peccato per rendere l’uomo capace di amare. L’amore vero è la vera libertà: distacca dal possesso, ricostruisce le relazioni, sa accogliere e valorizzare il prossimo, trasforma in dono gioioso ogni fatica e rende capaci di comunione. L’amore rende liberi anche in carcere, anche se deboli e limitati.

Questa è la libertà che riceviamo dal nostro Redentore, il Signore nostro Gesù Cristo.

TUTTO SI DECIDE IN UN ISTANTE DI STUPORE

Omelia nella XXIII Domenica del T.O. – San Girolamo, 9 settembre 2018

Noi abbiamo bisogno di recuperare la semplicità e la concretezza del Vangelo. Una delle parole evangeliche, più capaci di esprimere l’esperienza di questa semplicità, è la parola stupore: «pieni di stupore, dicevano: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!”» (Mc 7, 37). Non erano colmi di stupore solo per il miracolo della guarigione, ma perché avevano riconosciuto, in quel fatto, il segno che Gesù realizzava la profezia di cui abbiamo ascoltato in Isaia: «Dite agli smarriti di cuore: – e qui siamo tutti smarriti di cuore, abbiamo tutti bisogno di sentirci dirci dire – “Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio […] Egli viene a salvarvi”. Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto» (Is 35,4-6). Sono stupiti perché riconoscono l’azione di Dio, che risponde al desiderio del nostro cuore e realizza la sua promessa.
La vita cristiana è tutta nello stupore e a nessuno è impedita la possibilità di stupirsi, in qualunque situazione si trovi. Il miracolo, infatti, accade nella Decapoli, ovvero in territorio pagano (cfr. Mc 7, 31): la Chiesa è cattolica (il termine “cattolico” deriva dal greco kath’olòn, che significa “secondo il tutto”, la totalità)! Se ci chiudiamo nei nostri gruppi, senza “uscire” incontro a tutti, non siamo più la Chiesa. A nessuno è impedito di stupirsi, e, quando si fa l’esperienza dello stupore, non c’è bisogno di aggiungere altro dopo, come non c’era bisogno di condizioni particolari prima.
Chiunque, in qualsiasi condizione, può stupirsi e, quando ci si stupisce, si scopre che dentro l’esperienza dello stupore c’è già tutto, sei pieno di qualcosa che non avevi previsto, e questo è il cambiamento della vita, è la santità. Com’è semplice questa dinamica! È solo questa esperienza che cambia veramente la vita. Io riconosco, nel ministero sacerdotale vissuto nelle varie parrocchie e realtà ecclesiali, che i momenti in cui si è fecondi e si costruisce qualcosa di nuovo, sono gli istanti in cui si lascia prevalere un istante di stupore prima di ogni pensiero o progetto.
Sono lieto per questa estate, perché è stata piena di istanti di stupore. Lo stupore dei bambini con cui abbiamo fatto il campeggio, con lo stupore mio nel vedere la loro disponibilità e l’unità vissuta con gli adulti; lo stupore guardando l’alba con i ragazzi più grandi e riconoscendo, in un adulto che aveva visto sorgere tante volte il sole, lo stupore per un’esperienza nuova; lo stupore di vedere i nostri giovani giocare a calcetto saponato con gli ospiti della Capanna di Betlemme; lo stupore che mi ha riempito quando, prima di una riunione del Consiglio pastorale, un membro dello stesso CPP, che non poteva partecipare, ha inviato un contributo in cui, invece di una riflessione sulle cose da fare, ha raccontato di un momento in cui era stato stupito incontrando dei detenuti; lo stupore per vedere le amiche del coro fare i turni per assistere in ospedale la signorina Yvonne, segno che questa donna aveva suscitato un’esperienza di comunità; lo stupore per il gruppo che, con entusiasmo, sta preparando la Festa parrocchiale; lo stupore per dei rapporti che si intensificano condividendo una malattia o un momento drammatico dell’esistenza; lo stupore per una domanda rinnovata su Gesù che si ridesta in volti “vecchi” e “nuovi”, fino a sabato scorso quando, mentre pensavo a tutto il clamore mediatico sul male presente nella Chiesa, sono stato chiamato da due giovani universitarie che, con la mamma di una di loro, stavano pulendo le panche della nostra chiesa: ma cosa spinge due ragazze di vent’anni a lavorare così, tutte contente, mentre sui giornali, alla TV e sui social si dice ogni male dell’esperienza ecclesiale? Cos’hanno visto di diverso? Questo è ciò che rinnova la Chiesa: Cristo continua a suscitare un’attrattiva, ed io sono stupito per come, nelle ultime settimane, ho sperimentato l’accadere di un dialogo vero e profondo con giovani di questa età, anche nella nostra parrocchia.
La Chiesa vive di questo, non vive di organizzazione. L’esperienza cristiana non si nutre di un moralismo fatto di regole rigide, ma di questi istanti di stupore in cui si riconosce Gesù che agisce.
Tutto questo appare fragile e debole. Me ne sono accorto ieri sera, quando sono andato a trovare gli amici della Capanna di Betlemme, mentre si stava svolgendo, in viale Principe Amedeo, la manifestazione di una forza politica, a sua volta contestata da gruppi appartenenti ad altre forze antagoniste. Quando sono partito dalla parrocchia, dopo la messa del pomeriggio, le Forze dell’ordine erano schierate in tenuta antisommossa e già da qualche tempo l’elicottero della Polizia sorvolava la zona. Sono arrivato alla Capanna dove, invece, ho trovato gente contenta, giovani volontari (una giovane degli Scout dell’AGESCI e altri ragazzi di varie provenienze), assieme ad alcuni degli ospiti “fissi”, che conosco, i quali mi hanno salutato come amici.
Poco dopo, a pochi passi da noi (viale Dardanelli, dove si trova la Capanna di Betlemme, è parallelo ed è vicinissimo a viale Principe Amedeo) sono cominciati gli slogan pieni di rabbia e le cariche, l’elicottero della Polizia volava bassissimo per controllare la situazione e, quando passava sopra di noi, quasi non si riusciva a parlare. In quel momento è arrivato, inatteso, il pulmino del Banco Alimentare, con due amici di Comunione e Liberazione di Lugo. Avevano fatto una raccolta di alimenti straordinaria, in occasione del MotoGP di Misano. Abbiamo scaricato tutto assieme ai volontari della Capanna, mentre gli amici del Banco sono ripartiti subito per il magazzino di Imola, dopo una giornata di lavoro. A pochi passi gruppi di manifestanti si scontravano, mentre qui alla Capanna eravamo tutti col volto lieto, sistemando gli alimenti. Io mi sono fermato a chiacchierare con gli ospiti presenti nella Casa e poi sono stato a cena con loro.
Tutto questo sembrava molto debole rispetto alle Forze dell’ordine, intervenute per garantire la sicurezza di tutti, alla forza dei manifestanti che si contrapponevano tra loro, alla forza dei tanti problemi, per cui molti non hanno né cibo né abitazione.
Quella casa così semplice, nata dal desiderio con cui don Oreste voleva “augurare la buonanotte” a chi dorme per strada, quel gruppetto di volontari provenienti da esperienze e percorsi diversi, gli amici che col pulmino per tutta la giornata avevano raccolto alimenti e fatto la spola dal MotoGP alle opere di carità assistite dal Banco… Tutto sembrava tutto molto debole di fronte all’enormità dei problemi del mondo e alla forza di chi mostra i muscoli.
Sì, è una grande debolezza, che, come dice il Papa, è la forza dell’incarnazione, l’unica forza che porta una novità nel mondo.
Questa debolezza è la vera forza in cui ognuno di noi, e la Chiesa stessa, può consistere.

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L’ABBRACCIO CHE FA ARDERE IL CUORE

Lo scorso sabato sera sono andato a trovare gli amici della Capanna di Betlemme, opera dell’Associazione Papa Giovanni XXIII, con i quali è nato un rapporto che cerco di incrementare e che ritengo significativo per la nostra comunità parrocchiale di San Girolamo.
Nel frattempo si stava svolgendo, in viale Principe Amedeo, la manifestazione di una forza politica, a sua volta contestata da gruppi appartenenti ad altre forze antagoniste.
Quando sono partito dalla parrocchia, dopo la messa del pomeriggio, le Forze dell’ordine erano schierate in tenuta antisommossa e già da qualche tempo l’elicottero della Polizia sorvolava la zona.
Sono arrivato alla Capanna dove, invece, ho trovato gente contenta, giovani volontari (una giovane degli Scout dell’AGESCI e altri ragazzi di varie provenienze), assieme ad alcuni degli ospiti “fissi”, che conosco, i quali mi hanno salutato come amici.
Poco dopo, a pochi passi da noi (viale Dardanelli, dove si trova la Capanna di Betlemme, è parallelo ed è vicinissimo a viale Principe Amedeo) sono cominciati gli slogan pieni di rabbia e le cariche (il giorno seguente ho saputo che, purtroppo, alcuni agenti sono rimasti feriti), l’elicottero della Polizia volava bassissimo per controllare la situazione e, quando passava sopra di noi, quasi non si riusciva a parlare.
In quel momento è arrivato, inatteso, il pulmino del Banco Alimentare con due amici di Comunione e Liberazione di Lugo. Avevano fatto un giro straordinario, con un sacco di cibo avanzato dai vari punti ristoro allestiti in occasione del MotoGP di Misano. Abbiamo scaricato tutto assieme ai volontari della Capanna, mentre gli amici del Banco sono ripartiti subito per il magazzino di Imola, dopo una giornata di lavoro.
A pochi passi si gridavano slogan con rabbia, mentre qui alla Capanna eravamo tutti col volto lieto, decidendo assieme dove sistemare gli alimenti.
Io mi sono fermato a chiacchierare con gli ospiti presenti nella Casa, poi sono stato a cena con loro.
Tutto molto debole rispetto alle Forze dell’ordine intervenute per garantire la sicurezza di tutti, alla forza dei manifestanti che si contrapponevano tra loro, alla forza dei tanti problemi, per cui molti non hanno né cibo né abitazione.
Quella casa così semplice, nata dal desiderio con cui don Oreste voleva “augurare la buonanotte” a chi dorme per strada, quel gruppetto di volontari provenienti da esperienze e percorsi diversi, gli amici che col pulmino per tutta la giornata avevano raccolto alimenti e fatto la spola dal MotoGP alle opere di carità assistite dal Banco… sembrava tutto molto debole di fronte all’enormità dei problemi del mondo e alla forza di chi mostra i muscoli.
Una grande debolezza, che, come dice il Papa, è la forza dell’incarnazione, l’unica vera forza che porta una novità nel mondo.
Questa debolezza è l’unica vera nostra forza, è il calore di un abbraccio in cui potersi davvero sentire a casa.
don Roberto

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“LA FORZA E LA DEBOLEZZA DELL’INCARNAZIONE”

Cari amici,

in questi giorni, proprio mentre si concludeva l’importante e delicato Viaggio Apostolico di Francesco in Irlanda, a conclusione dell’Incontro mondiale delle famiglie di Dublino, nuovi attacchi al Papa sono stati diffusi sui mezzi di informazione, anche da chi ha rivestito ruoli di responsabilità nella comunità ecclesiale.
Il dolore per questo attacco alla carne del Corpo di Cristo, diventa una mendicanza alla Misericordia di Dio, che è la vera novità nella Chiesa, fatta di uomini e donne peccatori come me e come voi. In essa c’è tutto il limite e il peccato possibile – e questo non è una novità – ma, dentro a questa fragile umanità, opera il Mistero, Dio stesso che si è fatto carne, Gesù Cristo, il falegname di Nazareth. Quel volto umano, quella carne, è il volto di una Misericordia più grande di ogni male che possiamo commettere o subire. Questa è la vera sorgente per la continua riforma della Chiesa, la quale “semper reformanda est”.
Quando non si guarda a Cristo, e non ci si lascia guardare da Lui, si vive la Chiesa con le logiche mondane, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti. Ma questo inizia da me, da te, dalla nostra comunità parrocchiale.
Anche questa circostanza è l’occasione, offerta a ciascuno di noi, per un passo nell’esperienza di ciò che la Chiesa è, per la verifica della possibilità di “toccare la carne di Cristo” e di essere continuamente risollevati dal Suo abbraccio.
Siamo insieme per sostenerci nello stesso percorso di Giovanni e Andrea, quando si ritrovarono invasi dallo stupore, dopo aver cenato per la prima volta con Gesù, in quell’incontro di cui non scorderanno più il giorno e l’ora (cfr. Gv 1,35-39).
Siamo insieme, guardati uno per uno, come furono guardati Zaccheo e Matteo (cfr. Lc 19, 1-10 e Mt 9, 9-13), peccatori considerati irredimibili e cambiati da quell’incontro imprevisto, come furono guardate la Maddalena e la Samaritana (cfr. Lc 8, 1-3 e Gv 4, 4-42), le quali, dal giorno del loro primo incontro, non poterono più pensare a loro stesse se non a partire da quello sguardo.
La Chiesa non è per uomini e donne perfetti, ma per chi, dentro ai propri limiti e peccati, leale con la propria umanità, non si accontenta di ciò che non riempie il cuore e si lascia continuamente riabbracciare e perdonare da Cristo.
La forza che abbiamo non consiste nella nostra capacità di non commettere peccati o in una organizzazione che possa risolvere i problemi interni con nuove regole: non siamo un’armata che marcia trionfalmente, ma un “esercito di perdonati” (Gaudete et exsultate, 82).
L’unica nostra risorsa è Gesù presente tra noi, l’unica nostra forza è la debolezza di Dio che si è fatto carne, questa è “la forza e la debolezza dell’Incarnazione”
Santa Madre Teresa di Calcutta, a un giornalista che le chiedeva quale fosse la prima cosa da cambiare nella Chiesa, rispose: “Lei ed io”.
Preghiamo per il Papa e per la nostra conversione,

Un abbraccio,
don Roberto
Rimini, 1 settembre 2018

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NON UN'IDEA MA UNA CARNE

Omelia nella XX Domenica del T.O. – Anno B – San Girolamo 19.08.18

La Liturgia, in queste domeniche, ci sta proponendo la lettura del sesto capitolo del Vangelo secondo Giovanni, con il percorso di queste persone – una folla numerosissima – inizialmente entusiaste di Gesù, fino al punto di volerlo fare Re. Lo devono inseguire fino a Cafarnao perché Cristo si sottrae a questo loro desiderio. Non vuole, infatti, diventare il loro Re, perché sa che, se lo seguiranno in quel modo, non capiranno mai quello che lui è venuto a portare e ciò che veramente risponde al loro bisogno. Si fermeranno a quel pane che hanno visto moltiplicato nel miracolo. Ma non è questo pane che può saziarli: «Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà» (Gv 6,27).
Quando però comincia a dire che avrebbe dato il suo corpo come cibo – «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!» (Gv 6,35) – proprio questi uomini, i più entusiasti di lui, i più affezionati, al punto che avrebbero anche combattuto per farlo Re, hanno cominciato a reagire: «Allora i Giudei si misero a mormorare contro di lui perché aveva detto: “Io sono il pane disceso dal cielo”. E dicevano: “Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: Sono disceso dal cielo?”». (Gv 6,41-42).
Così si è svelata l’obiezione di sempre, che è anche la nostra: in fondo riteniamo impossibile che Dio possa venirci incontro attraverso un uomo in carne ed ossa, di cui pensiamo già di saper tutto. Il clima si fa teso, ed è interessantissimo notare che Gesù non cerca di recuperare consenso o di smussare i contrasti. Egli va fino in fondo nel proporre la sua carne come vero cibo: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,51). A quel punto si mettono tutti a discutere: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?» (Gv 6,52). Sicuramente in quel momento si saranno inseriti i capi del popolo con la loro propaganda contro Gesù. Avranno buon gioco nel convincerli – come vedremo domenica prossima – ad andarsene tutti.
Quello che accadrà è impressionante: se ne andranno tutti coloro che erano maggiormente entusiasti per lui! Ma, in realtà, lo avevano seguito finché si trattava di un’idea che approvavano. Quando, invece, Cristo propone una carne, cambia tutto. Perché Gesù non cerca di comporre il contrasto e di farsi capire? Perché se uno se ne va a causa del fatto che non comprende quello che Cristo sta dicendo, il vero problema non è che non è chiara quell’affermazione, ma che non è disposto a capire e si comporta in modo irragionevole, perché non sta guardando con lealtà alla propria esperienza.
Se questi uomini si fossero domandati la ragione del loro trovarsi nella Sinagoga, pensando a come si erano sorpresi ad ascoltarlo per ore senza neppure preoccuparsi di comprare da mangiare; riflettendo sul fatto che volevano farlo Re e che, successivamente, lo avevano inseguito fino a Cafarnao, forse, si sarebbero accorti dell’attrattiva che quell’uomo esercitava sul loro cuore e che valeva la pena seguire. Invece si fermano al fatto che non capiscono. Ma è ragionevole smettere di seguire uno che ti aveva attratto fino a quel punto, solo perché avverti qualcosa che stona rispetto a quello che già pensi di sapere?
Questa è una verifica che ognuno di noi deve fare e nella quale nessuno può sostituirsi all’altro. Ma perché sono qui? Che ragioni ho per stare qui? La professione di fede di Pietro (cfr. Gv 6, 68-69), culmine di tutto il percorso, sarà piena di queste ragioni ritrovate nella sua esperienza. Chi, invece, non fa questa verifica, prima o poi se ne va, oppure rimane qui formalmente, come un’abitudine.
Sapete da cosa si distinguono le due posizioni? Dal fatto di essere contenti o no. Quante volte uno viene qui in chiesa e si lamenta perché gli altri non fanno abbastanza, perché le cose vanno male, perché la situazione non è come la vorresti, ecc.
Io penso che si debba tener conto di questo criterio nella vita: seguire chi è contento. Non, evidentemente, chi si accontenta, a livello superficiale, di una allegria spensierata, ma chi è realmente contento e, anche nel dramma e nel dolore, vive una letizia ultima.
Il cristianesimo si riconosce da questa passione per la vita e da questo gusto per l’esistenza, ovvero da questa letizia possibile in ogni circostanza. Per questo uno può dire: «Gesù, anche io non capisco tutto quello che stai dicendo, però sperimento che la vita con te è più lieta, è più bella, è più piena».
Ieri ho incontrato un’amica della nostra parrocchia, alle prese con una grave malattia e con cure impegnative. Mi ha colpito il fatto che potessimo parlarne lieti, riconoscendo in questa drammatica circostanza la possibilità di scoprire la bellezza del vivere. Per questo siamo insieme! Per aiutarci a vivere! Se tu non verifichi che questa è la vita, perché dovresti continuare a stare qui? Forse per un dovere? Prima o poi te ne andrai. Sei qui per una tua immagine? Presto o tardi .
Gesù non ti propone un’idea, ti propone una carne, la sua carne. Anche noi potremmo dire: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?» Anche quando riconosciamo teoricamente che l’Eucarestia è il Corpo e il Sangue di Gesù, sovente riduciamo il Sacramento a rito o ad una devozione personale e non riconosciamo che l’Eucarestia genera un Popolo, il Suo Corpo, la Sua Carne. Spesso noi siamo come coloro che, quel giorno, erano nella sinagoga di Cafarnao: non crediamo che Gesù si possa incontrare realmente.
Io sono proprio lieto e certo di questo. Pur dentro la marea di peccati e di limiti, in cui ognuno di noi – io per primo – vive, sono certo che non abbiamo niente di meno di quegli uomini che quel giorno erano lì. Come per loro, i quali avevano davanti Gesù che donava se stesso e la sua carne, non è stato un passaggio automatico, così non lo è per noi oggi, di fronte alla stessa carne.
Io sono certo che davvero questa carne, oggi, la posso incontrare e la incontro, come l’hanno incontrata i discepoli. Sono sicuro che il percorso di Pietro, che culminerà nella sua professione di fede, è possibile oggi come allora. Occorre la semplicità di fidarsi non di un’idea, ma di una carne, di Qualcuno che non ti offre delle teorie, ma se stesso.
Ognuno di noi si trova con tutta la propria libertà di fronte a Gesù, il quale è disposto a perderci tutti – ma come ama la nostra libertà! – pur di poter conquistare realmente anche il cuore di uno solo.

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