UN GERMOGLIO DI NOVITÀ
Omelia nella Santa Messa della Notte di Natale
San Girolamo, 24 dicembre 2019
In questa Notte Santa «pensiamo – come scrive il Papa nella sua Lettera apostolica sul valore e sul significato del Presepe – a quante volte la notte circonda la nostra vita. Ebbene, anche in quei momenti, Dio non ci lascia soli, ma si fa presente per rispondere alle domande decisive che riguardano il senso della nostra esistenza: chi sono io? Da dove vengo? Perché sono nato in questo tempo? Perché amo? Perché soffro? Perché morirò? Per dare una risposta a questi interrogativi Dio si è fatto uomo. La sua vicinanza porta luce dove c’è il buio e rischiara quanti attraversano le tenebre della sofferenza (cfr. Lc 1,79)» (Admirabile signum, 1 dicembre 2019).
Come Dio risponde? Non con una spiegazione, con una teoria o con una dottrina, neppure con una esortazione etica, ovvero un richiamo morale: «un bambino è nato per noi» (Is 9, 5), «Egli ha dato se stesso per noi» (Tt 2,14).
Dio si fa uomo, non si scandalizza della nostra carne, così fragile e debole e drammaticamente segnata dal peccato, ma la fa Sua. Dio non si lamenta della cattiveria della nostra epoca, Egli viene e basta. Come scrisse Charles Peguy, «non perse affatto i suoi tre anni, Egli non li impiegò a gemere ed a interpellare il malore e la disgrazia dei tempi […]. Egli tagliò (corto), in un modo molto semplice. Facendo il cristianesimo. […] Egli non incriminò il mondo. Egli salvò il mondo» (Lui è qui, Pagine scelte, 110).
Non di rado mi capita di ascoltare le grida di allarme di chi, spaventato e scandalizzato da un mondo che non è più cristiano, vuole difendere una cristianità che, come ci ha richiamato Francesco sabato scorso, non esiste più (cfr. il Discorso alla Curia Romana, 21 dicembre 2019). In realtà è proprio questa posizione a portarci lontano dalla fede, dandola per scontata, facendoci perdere il meglio, ovvero Gesù stesso, la Sua Presenza, l’Incarnazione nella quale si lega alla nostra carne (cfr. Gaudium et spes, 22). Cristo, infatti, non fa prediche morali, non si scaglia con requisitorie contro gli uomini malvagi, non teme la mia fragilità, non volge lo sguardo altrove di fronte al mio peccato, ma ama questa mia umanità, così ferita e bisognosa.
Sabato scorso ci siamo ritrovati nella nostra Casa parrocchiale per un pranzo di Natale con gli amici della Capanna di Betlemme. Con il nostro Vescovo Francesco ed alcuni giovani e adulti della nostra Comunità, erano presenti anche due dei tre amici che, da ieri sera, sono accolti nella nostra casa e rimarranno per tutto il periodo più freddo dell’inverno. Ci siamo sorpresi insieme, così diversi per età, storia personale e sensibilità, in un dialogo intenso segnato da una familiarità che ci ha stupiti. Una giovane universitaria notava che le stava accadendo quello che aveva sperimentato in una vacanza comunitaria nella scorsa estate, assieme a un gruppo di studenti con i quali, pur non conoscendo quasi nessuno, si era ritrovata amica come se li conoscesse da sempre. Sabato abbiamo riconosciuto nell’esperienza di ciascuno dei presenti la stessa domanda, la stessa ferita, lo stesso bisogno infinito del cuore di ogni uomo, che potevamo guardare con simpatia perché dominava lo sguardo di Cristo, senza il quale non sarebbe neppure immaginabile quella tenerezza che abbraccia tutto di noi senza scartare nulla, neppure il peccato.
San Paolo VI, riguardo all’affermazione paolina – «Tutto concorre al bene per quelli che amano Dio» (Rm 8,28) – citando S. Agostino aggiunse: etiam peccata, anche i peccati (Omelia, 20 marzo 1966). Cristo non scarta neppure un brandello della nostra umanità, è innamorato di questa ferita, poiché essa svela l’ampiezza del desiderio che solo Lui prende sul serio fino in fondo.
In questa notte, così come siamo, in qualsiasi situazione ci troviamo, qualsiasi peso gravi sulla nostra coscienza, qualsiasi ferita ci portiamo addosso, siamo abbracciati da Colui che si lega per sempre alla fragilità della nostra carne, facendosi carne Lui stesso. Siamo oggetto di una stima assoluta e di una preferenza inimmaginabile: che commozione infinita!
«Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio» (Lc 2,7). Ma chi se ne è accorto? Solo i pastori avvisati dagli angeli (cfr. Lc, 2, 8-14). A noi, spesso, appare troppo debole questa modalità di agire da parte di Dio, rispetto alla gravità della situazione ed ai problemi del nostro tempo.
In un suo intervento il Papa domandò: «È da ingenui credere che questo possa cambiare il mondo? Sì, umanamente parlando è da folli, ma “ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1 Cor 1,25)» (Udienza generale, 9 dicembre 2015).
Domattina, nella messa dell’aurora, ascolteremo il prosieguo del racconto evangelico che abbiamo appena ascoltato, in cui i pastori si dicono l’un l’altro: «Andiamo dunque fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere» (Lc 2,15). Mentre noi cadiamo sovente nella tentazione di vedere quello che non c’è o che ci dovrebbe essere (cfr. FRANCESCO, Evangelii gaudium n. 96), i pastori si lasciano cambiare dalla novità di quello che c’è.
Una novità reale nella nostra vita può essere generata solo da un avvenimento imprevisto e imprevedibile, che, in una modalità semplicissima, permette, secondo l’immagine biblica, il fiorire inaspettato di un germoglio in un tronco che si pensava ormai completamente secco (cfr. Is 11,1). Si tratta, come ha affermato Francesco sabato scorso, di «privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove» (Discorso alla Curia Romana, 21 dicembre 2019), sorprendendo, nella nostra vita e nel cammino della nostra Comunità parrocchiale, i germogli di novità, come i fatti e i volti richiamati nella Veglia di ieri sera: dal rapporto con alcune persone più giovani che frequentano l’università, le quali si sorprendono in vari modi attratte dall’esperienza cristiana e piene di domande, all’amica adulta che, mentre racconta cosa sta vivendo in parrocchia, si sente dire da chi la conosce da tanti anni: «non ti riconosco più, se fa questo effetto vengo anch’io a Rimini!»; dalla familiarità con Cristo ben visibile nel Concerto del coro e nell’intensità di alcuni rapporti in cui si condivide il dramma del vivere a chi, inaspettatamente, si riavvicina all’esperienza della Chiesa. Tutto accade attraverso incontri umani casuali, fatti di nomi e cognomi, luoghi e orari che ricordiamo con precisione. È troppo poco? Questo è il metodo di Dio, la logica dell’Incarnazione, un abbraccio carnale che si comunica da persona a persona: accade oggi allo stesso modo di 2000 anni fa.
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