Rimini (RN) - Marina Centro
95 Voci
0541 27175
PARROCCHIA S. GIROLAMO

SECONDA DOMENICA DI QUARESIMA: LA TRASFIGURAZIONE

Commento di don Roberto per la trasmissione
“Una Parola per Domenica” di IcaroTV

Letture di Domenica 5 marzo, II di Quaresima
Gen 12,1-4a; Sal 32 (33); 2Tim 1,8b-10; Mt 17,1-9

L’evento della Trasfigurazione, cui la Liturgia della Chiesa dedica una festa il 6 agosto, è sempre riproposto in questa seconda domenica di Quaresima, analogamente al contesto storico in cui si colloca nella vita di Gesù. Egli ha cominciato a “spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno”. (Mt 16, 21). Pietro, a cui poco prima aveva conferito il primato (Mt 16, 18-19) si era ribellato alla prospettiva della morte di Gesù, che a sua volta lo aveva richiamato chiamandolo satana e invitandolo a rimettersi alla sua sequela per non ricadere nella mentalità mondana (Mt 16, 22-23).
Cristo è radicale nella sua proposta, che sfida anche oggi ciascuno di noi: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita?” (Mt 16,24-26). C’è una domanda più capace di prendere sul serio totalmente la nostra umanità, sfidandola fino in fondo? È un punto di svolta per i discepoli in cui sono chiamati a prendere posizione su quello che stanno vivendo con Gesù e riconoscere la strada in cui la bellezza incontrata può continuare. Finirà tutto? Perderanno quell’uomo che hanno riconosciuto come tutto per la loro vita? Quegli anni, che hanno travolto la loro esistenza riempiendola di una novità inimmaginabile se non fosse loro accaduta, sono destinati a rimanere un ricordo del passato? È in questo contesto che Cristo sceglie i tre – Pietro, Giacomo e Giovanni – per far vivere loro un’esperienza in cui possano comprendere che la Croce è la strada per giungere alla Resurrezione. Gli stessi tre discepoli li ritroveremo sul monte degli Ulivi (cfr. Mt 26,36-39) coinvolti da Gesù nel momento in cui Egli sperimenterà “tristezza e angoscia” (Mt 26,37) maturando il suo “Sì” al Padre nell’accettazione della croce. Anche i discepoli sono chiamati a un passo determinante rispetto all’immagine che si erano fatti della loro vita con Gesù. Senza il passaggio della Passione, della Morte e della Risurrezione quell’esperienza sarebbe stata bloccata in un passato senza investire totalmente la loro vita e senza permettere a noi di viverla nel nostro presente, in ogni tempo ed ogni luogo.
Nella Trasfigurazione essi partecipano ad un anticipo della Risurrezione, in cui, con la presenza di Mosè ed Elia si rende evidente che nella Persona di Gesù si compie l’esperienza di Israele nell’Antica Alleanza come avevamo sottolineato commentando il Discorso della Montagna: “Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento” (Mt 5,17).
L’esaltazione di Cristo, non avviene nell’affermazione di sé secondo la tentazione del diavolo su cui abbiamo meditato domenica scorsa, ma nell’affermazione del Suo rapporto con il Padre, che passa attraverso la croce realizzandosi nel dono totale di sé. Il volto che brilla come il sole e le vesti che diventano candide della luce (cfr. Mt 17,2) esprimono l’esaltazione dell’umano che accade quando la nostra umanità si lascia investire totalmente dal divino, il quale si accoglie sempre ospitando una presenza reale e carnale nella propria vita.
È questa presenza ad essere indicata dalla voce del Padre: “Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: ‘Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo’” (Mt 17,5).
Ascoltatelo ora che vi sta indicando la croce, guardate a Lui senza rimanere bloccati in quello che di Lui credete di aver capito.
I tre discepoli sperimentano così un nuovo inizio, dalla bellezza di essere lì, che Pietro descrive entusiasta (Mt 17,4), fino al timore nella consapevolezza di essere testimoni della manifestazione di Dio. Essi ricominciano a seguire, ricominciano cioè da quella presenza che li sorprende ancora una volta: “Gesù si avvicinò, li toccò e disse: ‘Alzatevi e non temete’. Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo” (Mt 17,7-8).
Gesù solo, non le loro immagini, ma una pienezza di vita, una trasfigurazione dell’umano che non potevano generare con quello che pensavano già di sapere ma che accadeva davanti ai loro occhi per un Avvenimento imprevisto e imprevedibile, che non potevano racchiudere nelle loro definizioni ma da cui tornavano ogni volta a lasciarsi spiazzare ricominciando a seguire.
Occorre essere leali e seguire dove riconosciamo oggi accadere questa stessa trasfigurazione dell’umano, che in questi giorni ho riconosciuto nel modo in cui hanno vissuto la malattia e la morte alcune persone amiche o per come con altri amici ci si sorprende a condividere il dramma del vivere per uno sguardo capace di abbracciare tutta la nostra umanità che non sarebbe possibile se Cristo non fosse presente, se non fosse il suo sguardo a incrociare il nostro.
Anche noi come i discepoli siamo chiamati a prendere posizione, chiedendoci se vogliamo davvero che la bellezza incontrata, o almeno intuita, diventi fino in fondo esperienza nostra.
La strada è semplice: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo” (Mt 17,5).

Per scaricare il testo in formato pdf clicca sul link seguente:

Download Commento_per_IcaroTV_alle_Letture_di_Domenica_5_marzo__II_di_Quaresima.pdf

PRIMA DOMENICA DI QUARESIMA: LE TENTAZIONI

Commento di don Roberto Battaglia per la trasmissione
“Una Parola per Domenica” di IcaroTV

Letture di Domenica 26 febbraio, I di Quaresima
Gen 2,7-9.3,1-7; Sal 50 (51); Rm 5,12-19; Mt 4,1-11

Lo Spirito conduce Gesù nel deserto “per essere tentato dal diavolo” (Mt 4,1). Cristo entra così nel dramma dell’esistenza umana senza sottrarsi alla tentazione, anzi, svelandola e superandola.
Qual è LA tentazione? Una salvezza senza Dio, fondata sulle nostre capacità e sui nostri progetti politici e materiali con i quali realizzare una nostra giustizia, la quale non supererà mai quella “degli scribi e dei farisei” e sarà sempre priva dell’esperienza del “regno dei cieli” (cfr. Mt 5,20). Abbiamo ascoltato anche nel Mercoledì delle Ceneri il richiamo di Gesù: “state attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini” (Mt 6,1). Eppure a noi la giustizia proposta da Cristo appare troppo poco, ci vuole altro per cambiare il mondo, occorre altro per un’azione incisiva nella storia.
Gesù stesso ha attraversato questa tentazione, che peraltro si ripresenterà nell’orto degli ulivi e sulla croce quando si sentirà ripetere: “Se sei Figlio di Dio… dì che queste pietre diventino pane … Se sei Figlio di Dio… scendi dalla croce” (Mt 4,3; 27,40).
“Se sei Figlio di Dio dì che queste pietre diventino pane” (Mt 4,3). La tentazione si presenta quasi sempre come un bene. Perché non risolvi i problemi dell’uomo, cominciando a sfamare tutti? È la stessa tentazione che si presenta in ogni tempo alla Chiesa: Perché non ti dedichi a risolvere i problemi concreti per poter essere efficace con nuove strategie e nuove linee di azione?
Ma Gesù conosce l’umanità che ha condiviso con noi, anzi, è proprio nel suo sguardo rivelatore dell’umano che possiamo riconoscere la corrispondenza col nostro cuore inquieto, rispetto alla quale non arretra neppure di un millimetro, interpellando il desiderio infinito che grida in ogni brandello della nostra umanità: “Sta scritto: non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4,4). L’inganno di ogni potere, compreso quello clericale, si svela qui, nella sua incapacità di rispondere all’inquietudine del nostro cuore e di abbracciare interamente la nostra umanità senza scartare nulla. L’uomo non vive solo di pane, ha bisogno di qualcosa di più. Anche quando moltiplicherà i pani poi si sottrarrà a coloro che vorranno farlo re e, nella sinagoga di Cafarnao, parlerà di un altro pane, che sazia per l’eternità, ovvero la sua stessa carne (cfr. Gv 6, 5-58). Gesù non fa compromessi rispetto all’attesa del nostro cuore, a costo di essere abbandonato da tutti, perché sa che l’adesione a una proposta che non sia all’altezza delle esigenze infinite della nostra umanità sarà inutile, non terrà di fronte alle sfide dell’esistenza. Così provocherà la ragione e la libertà dei pochi rimasti – “volete andarvene anche voi?” (Gv 6,67) – invitando a quella verifica personale che condurrà Pietro alla professione di fede che fiorirà dall’esperienza vissuta con gli altri discepoli: “Dove andremo? Tu solo hai parole di vita eterna” (Gv 6,68-69). Il primo antidoto alla tentazione è dunque allargare il desiderio, non ridurre l’esigenza infinita del nostro cuore ma prendere sul serio tutto intero il bisogno di cui è fatta la nostra umanità.
Sorprendentemente nella seconda tentazione il diavolo cita la Sacra Scrittura: “Lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: Se tu sei Figlio di Dio, gettati giù; sta scritto infatti: ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra. Gesù gli rispose: Sta scritto anche: Non metterai alla prova il Signore tuo Dio” (Mt 4,5-7; cfr. Sal 91,11-12; Dt 6,16)
Il duello tra Gesù e il diavolo prosegue dunque a colpi di citazioni bibliche, nelle quali emergono due modi di leggere la Sacra Scrittura. Non per nulla Vladimir Solov’ëv, nel suo Racconto dell’Anticristo, presenta l’Anticristo come un esperto della Bibbia che riceve la laurea honoris causa dall’Università di Tubinga. Qual è la differenza tra le due interpretazioni bibliche che si contrappongono? Gesù comprende la Sacra Scrittura a partire dal suo rapporto col Padre e le parole bibliche da lui citate descrivono e si chiariscono nell’appartenenza al Padre, mentre il diavolo utilizza il testo biblico a supporto di una visione ideologica che non solo prescinde da tale appartenenza ma vi si oppone, proponendo a Cristo di affermare la sua divinità con l’ostentazione della sua potenza, attraverso effetti speciali che sarebbero capaci di convincere l’uomo senza interpellare la sua ragione e la sua libertà.
Ognuno di noi può riconoscere la stessa tentazione nella propria vita personale e in quella delle nostre comunità ecclesiali, verificando il proprio modo di leggere e interpretare i testi biblici.
Nella terza tentazione il diavolo rivela il suo progetto offrendo a Gesù una proposta, che è più vicina alle nostre immagini circa la salvezza e la missione della Chiesa di quanto ce ne rendiamo conto. “Gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: Tutte queste cose io ti darò, se gettandoti ai miei piedi, mi adorerai. Allora Gesù gli rispose: Vattene Satana! Sta scritto infatti: Il Signore tuo Dio adorerai; a lui solo renderai culto” (Mt 4,8-10; cfr. Dt 6,13).
Se Gesù avesse in mano tutti i regni e fosse così assicurata la pace e garantita una legislazione che salvaguardasse i principi etici cristiani, ogni problema sarebbe risolto? Cristo non si lascia ingannare perché sa che non è questo a rispondere al bisogno dell’uomo, ma l’incontro reale con la sua presenza, un incontro umano in cui la sua divinità è riconosciuta in una verifica che ogni uomo e ogni donna può fare mettendo in gioco tutta la propria ragione e la propria libertà.
“Le forze che cambiano la storia sono le stesse che cambiano il cuore dell’uomo” rispose don Luigi Giussani a uno studente che aveva lasciato la comunità cristiana per abbracciare un progetto rivoluzionario che gli sembrava più concreto ed efficace.
È troppo poco o è l’unica cosa necessaria, per noi e per tutta l’umanità?

PRIMA DOMENICA DI QUARESIMA: LE TENTAZIONI

Commento di don Roberto Battaglia per la trasmissione
“Una Parola per Domenica” di IcaroTV

Letture di Domenica 26 febbraio, I di Quaresima
Gen 2,7-9.3,1-7; Sal 50 (51); Rm 5,12-19; Mt 4,1-11

Lo Spirito conduce Gesù nel deserto “per essere tentato dal diavolo” (Mt 4,1). Cristo entra così nel dramma dell’esistenza umana senza sottrarsi alla tentazione, anzi, svelandola e superandola.
Qual è LA tentazione? Una salvezza senza Dio, fondata sulle nostre capacità e sui nostri progetti politici e materiali con i quali realizzare una nostra giustizia, la quale non supererà mai quella “degli scribi e dei farisei” e sarà sempre priva dell’esperienza del “regno dei cieli” (cfr. Mt 5,20). Abbiamo ascoltato anche nel Mercoledì delle Ceneri il richiamo di Gesù: “state attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini” (Mt 6,1). Eppure a noi la giustizia proposta da Cristo appare troppo poco, ci vuole altro per cambiare il mondo, occorre altro per un’azione incisiva nella storia.
Gesù stesso ha attraversato questa tentazione, che peraltro si ripresenterà nell’orto degli ulivi e sulla croce quando si sentirà ripetere: “Se sei Figlio di Dio… dì che queste pietre diventino pane … Se sei Figlio di Dio… scendi dalla croce” (Mt 4,3; 27,40).
“Se sei Figlio di Dio dì che queste pietre diventino pane” (Mt 4,3). La tentazione si presenta quasi sempre come un bene. Perché non risolvi i problemi dell’uomo, cominciando a sfamare tutti? È la stessa tentazione che si presenta in ogni tempo alla Chiesa: Perché non ti dedichi a risolvere i problemi concreti per poter essere efficace con nuove strategie e nuove linee di azione?
Ma Gesù conosce l’umanità che ha condiviso con noi, anzi, è proprio nel suo sguardo rivelatore dell’umano che possiamo riconoscere la corrispondenza col nostro cuore inquieto, rispetto alla quale non arretra neppure di un millimetro, interpellando il desiderio infinito che grida in ogni brandello della nostra umanità: “Sta scritto: non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4,4). L’inganno di ogni potere, compreso quello clericale, si svela qui, nella sua incapacità di rispondere all’inquietudine del nostro cuore e di abbracciare interamente la nostra umanità senza scartare nulla. L’uomo non vive solo di pane, ha bisogno di qualcosa di più. Anche quando moltiplicherà i pani poi si sottrarrà a coloro che vorranno farlo re e, nella sinagoga di Cafarnao, parlerà di un altro pane, che sazia per l’eternità, ovvero la sua stessa carne (cfr. Gv 6, 5-58). Gesù non fa compromessi rispetto all’attesa del nostro cuore, a costo di essere abbandonato da tutti, perché sa che l’adesione a una proposta che non sia all’altezza delle esigenze infinite della nostra umanità sarà inutile, non terrà di fronte alle sfide dell’esistenza. Così provocherà la ragione e la libertà dei pochi rimasti – “volete andarvene anche voi?” (Gv 6,67) – invitando a quella verifica personale che condurrà Pietro alla professione di fede che fiorirà dall’esperienza vissuta con gli altri discepoli: “Dove andremo? Tu solo hai parole di vita eterna” (Gv 6,68-69). Il primo antidoto alla tentazione è dunque allargare il desiderio, non ridurre l’esigenza infinita del nostro cuore ma prendere sul serio tutto intero il bisogno di cui è fatta la nostra umanità.
Sorprendentemente nella seconda tentazione il diavolo cita la Sacra Scrittura: “Lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: Se tu sei Figlio di Dio, gettati giù; sta scritto infatti: ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra. Gesù gli rispose: Sta scritto anche: Non metterai alla prova il Signore tuo Dio” (Mt 4,5-7; cfr. Sal 91,11-12; Dt 6,16)
Il duello tra Gesù e il diavolo prosegue dunque a colpi di citazioni bibliche, nelle quali emergono due modi di leggere la Sacra Scrittura. Non per nulla Vladimir Solov’ëv, nel suo Racconto dell’Anticristo, presenta l’Anticristo come un esperto della Bibbia che riceve la laurea honoris causa dall’Università di Tubinga. Qual è la differenza tra le due interpretazioni bibliche che si contrappongono? Gesù comprende la Sacra Scrittura a partire dal suo rapporto col Padre e le parole bibliche da lui citate descrivono e si chiariscono nell’appartenenza al Padre, mentre il diavolo utilizza il testo biblico a supporto di una visione ideologica che non solo prescinde da tale appartenenza ma vi si oppone, proponendo a Cristo di affermare la sua divinità con l’ostentazione della sua potenza, attraverso effetti speciali che sarebbero capaci di convincere l’uomo senza interpellare la sua ragione e la sua libertà.
Ognuno di noi può riconoscere la stessa tentazione nella propria vita personale e in quella delle nostre comunità ecclesiali, verificando il proprio modo di leggere e interpretare i testi biblici.
Nella terza tentazione il diavolo rivela il suo progetto offrendo a Gesù una proposta, che è più vicina alle nostre immagini circa la salvezza e la missione della Chiesa di quanto ce ne rendiamo conto. “Gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: Tutte queste cose io ti darò, se gettandoti ai miei piedi, mi adorerai. Allora Gesù gli rispose: Vattene Satana! Sta scritto infatti: Il Signore tuo Dio adorerai; a lui solo renderai culto” (Mt 4,8-10; cfr. Dt 6,13).
Se Gesù avesse in mano tutti i regni e fosse così assicurata la pace e garantita una legislazione che salvaguardasse i principi etici cristiani, ogni problema sarebbe risolto? Cristo non si lascia ingannare perché sa che non è questo a rispondere al bisogno dell’uomo, ma l’incontro reale con la sua presenza, un incontro umano in cui la sua divinità è riconosciuta in una verifica che ogni uomo e ogni donna può fare mettendo in gioco tutta la propria ragione e la propria libertà.
“Le forze che cambiano la storia sono le stesse che cambiano il cuore dell’uomo” rispose don Luigi Giussani a uno studente che aveva lasciato la comunità cristiana per abbracciare un progetto rivoluzionario che gli sembrava più concreto ed efficace.
È troppo poco o è l’unica cosa necessaria, per noi e per tutta l’umanità?

IL DISCORSO DELLA MONTAGNA - 4 (Mt 5,38-48)

Commento di don Roberto Battaglia per la trasmissione
“Una Parola per Domenica” di IcaroTV

Letture di Domenica 19 febbraio, VII del T.O.
Lv 19,1-2.17-18; Sal 102; 1Cor 3,16-23; Mt 5,38-48

“Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5,48). Questa affermazione di Gesù è il culmine dell’esperienza di quella che abbiamo chiamato “giustizia sovrabbondante”, la “giustizia superiore a quella degli scribi e dei farisei” che permette di “entrare nel regno dei cieli” (Mt 5,20). Non si tratta evidentemente di una perfezione etica che dovremmo raggiungere col nostro sforzo, poiché, oltre ad essere impossibile per noi, tale moralismo coinciderebbe con la tentazione di fare a meno di Dio riducendo così la nostra esperienza a un “cristianesimo senza Cristo”, come già abbiano notato nelle nostre riflessioni sul Discorso della montagna.
Essere perfetti come il Padre, che “fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” (Mt 5,45), significa accogliere la natura di Dio come misericordia (cfr. Lc 6,36: “Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso”), dunque condotti allo scopo ultimo, al vero significato della giustizia, al compimento della nostra umanità che si realizza nel lasciarci perdonare, nell’accettare quello sguardo di misericordia da cui è stato investito l’autore stesso del vangelo, il pubblicano Matteo, poi divenuto apostolo ed evangelista, come spesso descrive il nostro Papa Francesco: “Parlando dell’incontro mi viene in mente La vocazione di Matteo, quel Caravaggio davanti al quale mi fermavo a lungo in San Luigi dei Francesi, ogni volta che venivo a Roma. Nessuno di quelli che stavano lì, compreso Matteo avido di denaro, poteva credere al messaggio di quel dito che lo indicava, al messaggio di quegli occhi che lo guardavano con misericordia e lo sceglievano per la sequela. Sentiva quello stupore dell’incontro. È così l’incontro con Cristo che viene e ci invita. […] E non si può capire questa dinamica dell’incontro che suscita lo stupore e l’adesione senza la misericordia. Solo chi è stato accarezzato dalla tenerezza della misericordia, conosce veramente il Signore. Il luogo privilegiato dell’incontro è la carezza della misericordia di Gesù Cristo verso il mio peccato. […] La morale cristiana non è lo sforzo titanico, volontaristico, di chi decide di essere coerente e ci riesce, una sorta di sfida solitaria di fronte al mondo. No. […] La morale cristiana è risposta, è la risposta commossa di fronte a una misericordia sorprendente” (7 marzo 2015).
Benedetto XVI, ha sottolineato come questa insistenza di Papa Francesco sia in profonda continuità con i suoi predecessori e come in questo tempo “l’idea della misericordia diventi sempre più centrale e dominante”. Si tratta di un’epoca in cui “non è più l’uomo che crede di aver bisogno della giustificazione al cospetto di Dio, bensì egli è del parere che sia Dio che debba giustificarsi a motivo di tutte le cose orrende presenti nel mondo e di fronte alla miseria dell’essere umano, tutte cose che in ultima analisi dipenderebbero da lui” (Che cos’è il cristianesimo, pp. 87-88).
Nei giorni in cui ricorre l’anniversario dell’inizio della guerra in Ucraina e in cui viviamo la tragedia del terremoto in Siria e Turchia, non possiamo non sorprendere innanzitutto in ciascuno di noi la domanda di una giustizia a cui non può rispondere il nostro “sforzo titanico” – “la giustizia degli scribi e dei farisei” (Mt 5,20) – ascoltando il grido dell’umanità che chiede a Dio di giustificarsi di fronte a queste immani sofferenze. Ma dove possiamo vedere e toccare questa “perfezione” (cfr. Mt 5,48) di Dio in questa circostanza?
La domanda è apertissima e la risposta non è una spiegazione ma un abbraccio. Ho in mente alcuni amici da anni impegnati in Siria nella realizzazione di ospedali durante questa guerra terribile che da anni affligge il popolo di quella terra oggi colpita dal terremoto e nella quale i nostri fratelli cristiani, spesso perseguitati, hanno accolto e continuano ad accogliere tutti dando cibo e ospitalità a tutti, senza distinzione di razza o religione.
“Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” (Mt 5, 43-45).
Per testimoniare la positività della realtà, il destino eterno di bene per cui è fatto ogni uomo ed ogni donna che nasce su questa terra, compresi coloro che sono misteriosamente coinvolti in queste immani sofferenze, occorre essere “perfetti come il Padre”, cioè figli, peccatori perdonati, feriti come tutti, con le domande di tutti che vibrano nella propria carne, che si lasciano guardare e abbracciare dalla misericordia di Dio e che non hanno altro da condividere con l’intera umanità se non questo sguardo e questo abbraccio. Questa è la “giustizia sovrabbondante” che ci permette di “entrare nel regno dei cieli”, cioè di vivere dentro ogni circostanza, anche la più dolorosa, nel dialogo con un Mistero buono, come ci testimoniano tanti fra noi che vivono in letizia anche le esperienze più dolorose. Possiamo accontentarci di meno?

MERCOLEDÌ DELLE CENERI - INIZIO DELLA QUARESIMA

MERCOLEDÌ DELLE CENERI - INIZIO DELLA QUARESIMA

- Messe con l'imposizione delle ceneri in parrocchia (ore 8 e 17.30)

- Celebrazione penitenziale presieduta dal nostro Vescovo Nicolò in Basilica Cattedrale alle 20.30

Clicca di seguito per scaricare la locandina - invito per la Liturgia presieduta dal Vescovo:

IL DISCORSO DELLA MONTAGNA - 3 (Mt 5,17-37)

Commento di don Roberto Battaglia per la trasmissione
“Una Parola per Domenica” di IcaroTV

Letture di Domenica 12 febbraio, VI del T.O.
Sir 15,16-21; Sal 118 (119); 1Cor 2,6-10; Mt 5,17-37

“Se la vostra giustizia non sovrabbonderà [il verbo greco indica un superamento che consiste in una sovrabbondanza] rispetto alla giustizia degli scribi e dei farisei non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 5,20). Queste parole di Gesù in Mt 5,20 legano la sua affermazione sul compimento di 5,17 (“Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento”) con le antitesi che seguono (“Fu detto… ma Io vi dico”) che esprimono il contenuto del compimento stesso.
Da dove ha origine questa sovrabbondanza di vita che è la giustizia maggiore proposta da Gesù come dimensione determinante dell’esperienza del regno dei cieli, dunque del rapporto con la profondità del reale? Si tratta di un tema decisivo del Vangelo secondo Matteo, a partire dall’esperienza di Giuseppe (Mt 1,19), uomo giusto, il primo ad aprirsi ad una giustizia maggiore di quella che aveva vissuto fino a quel momento, assecondando l’avvenimento che stava accadendo in Maria ed accogliendo Gesù ancora nel grembo della madre. Anche a Giovanni Battista che non voleva battezzarlo Cristo risponde: “è conveniente che si compia ogni giustizia” (Mt 3,15). Abbiamo inoltre già notato domenica scorsa il riferimento alla fame e alla sete della giustizia nelle beatitudini (Mt 5,6) ed alla persecuzione a causa della stessa giustizia (Mt 5,10). Possiamo infine citare Mt 6,1: “Badate di non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli”.
Non si tratta di una polemica con l’ipocrisia di scribi e farisei. Qui siamo nella prospettiva del compimento (cfr. le “citazioni di compimento” del Vangelo di Matteo, le quali mostrano che in Gesù si compie ogni profezia dell’AT) non dell’annullamento. Scribi e farisei sono considerati modello di una osservanza della legge scrupolosa e zelante: come si può dunque superare questa giustizia?
Si tratta ancor meno di intendere il superamento come un ulteriore sforzo etico, perché la giustizia maggiore indicata da Gesù come la condizione per “entrare nel regno dei cieli”, è totalmente altro: essa si compie in un superamento che la realizza nel suo pieno significato proprio in quanto costituisce una novità radicale irriducibile alla precedente.
La sovrabbondanza di vita che è la giustizia maggiore, superiore a quella degli scribi e dei farisei, è invece generata dall’irruzione di Dio nella nostra vita. La nuova giustizia fiorisce, infatti, dall’accoglienza della novità costituita dall’ingresso di Dio fatto uomo nella storia, che genera un cambiamento radicale, corrispondente al cuore (ovvero alla fame e alla sete di giustizia) più di ogni altro tentativo riconducibile ad una nostra misura ristretta.
Occorre la misura sovrabbondante di Dio: ecco il valore delle antitesi che seguono. Come sappiamo l’espressione “Fu detto” è un passivo teologico che indica l’azione di Dio, per cui il ripetersi delle antitesi con l’affermazione “Ma io vi dico” implica la pretesa di un’autorità divina da parte di Gesù e al tempo stesso la natura della giustizia superiore: non soltanto “qualcosa da fare”, ma una presenza da accogliere. È il rapporto con la persona di Gesù a rispondere alla fame e alla sete di giustizia della nostra umanità. Solo l’incontro con Lui genera una sovrabbondanza di vita altrimenti inimmaginabile (cfr. Mc 2,12: “Non abbiamo mai visto nulla di simile”).
Non si tratta di osservare dei precetti ma di lasciare entrare nella nostra esistenza una persona che cambia la nostra vita.
Le antitesi (vedi, ad esempio, quelle sull’omicidio e sull’adulterio) descrivono un altro modo di vivere, ovvero quella novità radicale che è una sovrabbondanza di vita, uno sguardo su di me e sull’altro che solo Cristo può portare. La moralità è lo stupore denso di attrattiva per questa sovrabbondanza di vita generata dall’accettare questo sguardo su di sé.

IL DISCORSO DELLA MONTAGNA - 2 (Mt 5,13-16)

Commento di don Roberto Battaglia per la trasmissione
“Una Parola per Domenica” di IcaroTV

Letture di Domenica 5 febbraio, V del T.O.
Is 58,7-10; Sal 41; 1Cor 2,1-5; Mt 5,13-16

“Voi siete il sale della terra” (Mt 5,13), “Voi siete la luce del mondo” (Mt 5,14). Ancora una volta Gesù non parte da un’esortazione etica cioè da un imperativo morale da intendersi nel senso di un richiamo a quello che i discepoli dovrebbero essere. In queste parole c’è la descrizione di un fatto che sta accadendo: quegli uomini sono il sale della terra perché sono beati, in quanto vivono “a causa di Cristo”, come abbiamo ascoltato domenica scorsa: “Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi a causa mia” (Mt 5,11).
“A causa di Cristo”: si tratta di una vita che ha l’origine in Lui, riconosciuto come il centro affettivo e come la sorgente di un cambiamento reale. Vivono a causa sua non coloro che sono impeccabili e non sbagliano mai, ma i “peccatori perdonati” che, dentro a tutte le debolezze e fragilità della nostra umanità ferita e bisognosa, riconoscono che Gesù è tutto. Perché Cristo o è tutto o è niente.
Affermare che Cristo è tutto non significa censurare tutto per esaltare Gesù, ma, anzi, esaltare, nel rapporto con Lui, ogni particolare della realtà e della nostra stessa umanità, dallo sguardo alla donna o all’uomo che si ama fino al lavoro e ad ogni aspetto del vivere.
Don Luigi Giussani affermava al proposito che “non c’è niente di più anticristiano che concepire “Cristo tutto in tutti” come l’eliminazione di tutto perché troneggi Cristo. Cristo troneggia facendo diventare vero tutto! Perché il Verbo incarnato è la verità” (L’autocoscienza del cosmo, 28). Perciò è Cristo il “sale della terra” e la “luce del mondo”: accogliere l’avvenimento della sua presenza nella nostra vita permette di gustare l’esistenza intera senza scartare nulla di noi e della realtà, rivelandone il pieno significato.
“Voi siete il sale della terra” (Mt 5,13), “Voi siete la luce del mondo” (Mt 5,14). Queste parole sono rivolte a noi, che dunque siamo il “sale della terra” e la “luce del mondo” (Mt 5, 14) non in virtù di una nostra capacità ma per essere stati afferrati dall’incontro con Cristo. Quel “voi” non indica una comunità che cerca di preservare la propria identità chiudendosi in una sorta di “cittadella assediata” – come l’ha chiamata il Papa (Angelus, 19 gennaio 2014) – ma un’esperienza che, secondo la propria natura, è destinata ad abbracciare l’intera umanità, poiché il cuore di ogni uomo e di ogni donna che nasce su questa terra desidera questa vita beata che può saziare la nostra fame e la nostra sete di giustizia (Mt 5, 6).
La luce annunciata dalla profezia di Isaia (Is 9,1) si compie nella persona di Cristo: “Gesù andò ad abitare a Cafarnao, sulla riva del mare, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali perché si compisse ciò che era stato detto dal profeta Isaia”. La luce è Cristo, in Lui “il Regno dei cieli si è fatto vicino” (Mt 4, 17) e non abbiamo altro da portare al mondo se non la Sua stessa Persona, come afferma San Paolo nel brano della Prima Lettera ai Corinzi proposto oggi come seconda lettura: “Io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso” (1Cor 2,2).
Non si tratta di un discorso su Gesù o dell’applicazione di un suo insegnamento, ma dell’esperienza reale della Sua Presenza che cambia la vita: “La mia parola e la mia predicazione non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana ma sulla potenza di Dio” (1Cor, 2, 4-5).
Quando “il sale perde il sapore” (cfr. Mt 5, 13) e “la luce si nasconde” (cfr. Mt 5, 14)? Quando il contenuto e il metodo dell’annuncio cristiano vengono ridotti ad una ideologia fatta di precetti e dottrine staccate da Gesù, proponendo quello che il Papa ha chiamato “un cristianesimo senza Cristo”.
Invece, tanto più in questo tempo in cui le parole cristiane sono incomprensibili, sia per coloro che frequentano la Chiesa sia per coloro che ne sono lontani, solo l’impatto con una umanità cambiata dall’incontro con Gesù può rendere credibile l’annuncio cristiano.
Questo è il “sale della terra” e “la luce del mondo”: non abbiamo altro da offrire a noi stessi e ai nostri fratelli e sorelle, uomini e donne del nostro tempo.

IL DISCORSO DELLA MONTAGNA - 1 (Mt 5,1-12a)

Commento di don Roberto Battaglia per la trasmissione
“Una Parola per Domenica” di IcaroTV

Letture di Domenica 29 gennaio, IV del T.O.
Sof 2,3.3,12-13; Sal 145; 1Cor 1,26-31; Mt 5,1-12a

Ma come dovevano guardarsi l’un l’altro questi uomini mentre Gesù rivolgeva loro delle parole che descrivevano uno sguardo sulla realtà irriducibile ad ogni criterio mondano? Si rendevano conto che quello che Cristo affermava, ripetendo di continuo «Beati... beati...», era una vita da cui erano stati letteralmente investiti, una pienezza che non avrebbero mai potuto immaginare e dalla quale si lasciavano abbracciare con semplicità e letizia. Per questo sono «Beati i poveri in spirito» (5,3), perché assecondano un incontro imprevisto – quello descritto in 4,18-22 che abbiamo ascoltato domenica scorsa – e si aprono ad una novità che riconoscono come “una questione di vita o di morte”. Si sentono totalmente sproporzionati rispetto alle parole con le quali Gesù descrive quello che stanno vivendo come l’esperienza del «popolo umile e povero» di cui abbiamo ascoltato nel brano del profeta Sofonìa proposto come prima lettura, quel «resto d’Israele» con cui Dio realizza la nuova alleanza, non comprendono tutto ciò che ascoltano ma non vorrebbero essere in nessun altro luogo del mondo se non lì. Sono Beati perché «hanno fame e sete della giustizia», ovvero sono inquieti, non si accontentano di ciò che può generare la giustizia degli scribi e dei farisei (5,6), hanno cioè fame e sete di un compimento che non possono realizzare con le loro forze ma che non smettono di desiderare, perché hanno iniziato a sperimentarlo dal loro primo incontro con quell’uomo sulle rive del mare di Galilea (4,18). Così Ratzinger-Benedetto XVI commenta: «Si tratta di persone che scrutano attorno a sé alla ricerca di ciò che è grande, della vera giustizia, del vero bene […] Lo sguardo [di Gesù] è indirizzato a persone che […] non soffocano l’inquietudine del cuore, quell’inquietudine che rimanda l’uomo a qualcosa di più grande e lo spinge a intraprendere un cammino come i Magi» (Gesù di Nazaret, I, pp. 115-116).
Matteo è l’unico evangelista che ci parla dei Magi, uomini inquieti e Papa Francesco proprio celebrando l’Epifania ha recentemente sottolineato il valore della loro inquietudine: «Il primo “luogo” in cui Dio ama essere cercato è l’inquietudine delle domande. Dio abita le nostre domande inquiete». I temi del compimento e della giustizia maggiore, superiore a quella degli scribi e dei farisei, che qui emergono, sono decisivi nel vangelo secondo Matteo ed in particolare in questo Discorso della montagna.
Gesù invita sempre a convertirsi rispetto a qualcosa che sta accadendo nella sua stessa persona, come afferma il Concilio Vaticano II in Dei Verbum 4, il suo non è un richiamo etico che ciascuno dovrebbe poi realizzare con una propria giustizia, ma l’invito a convertirsi (metanoeite, cambiate l’uso della ragione, cambiate il modo di giudicare, affinché ci sia un modo nuovo di conoscere la realtà) rispetto a qualcosa che sta accadendo: «convertitevi perché il regno dei cieli è vicino» (4,17). Non “è vicino” in quanto sta per arrivare, ma in quanto “si è fatto vicino” come il verbo greco utilizzato indica.
Anche le beatitudini non sono da concepirsi riduttivamente come indicazioni morali ma come la descrizione di un’esperienza che quegli uomini stanno già vivendo e che, al tempo stesso, sono chiamati a conquistare facendola propria in un percorso di verifica personale che implica la persecuzione: «Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli» (5,10).
La caratteristica fondamentale di questa esperienza è il vivere «a causa di Cristo», ossia avendo lui come centro affettivo, criterio centrale della vita. La ricompensa coincide con questa pienezza di vita (nelle prossime domeniche parleremo di giustizia sovrabbondante) che si può sperimentare solo implicandosi totalmente nel rapporto con Gesù, compromettendosi a tutti i livelli con Lui. La ricompensa non è estrinseca alla nostra umanità ma ci permette gustare ogni aspetto della realtà nel suo significato pieno (i cieli nel linguaggio biblico indicano la profondità del reale), un modo nuovo di conoscere la realtà riconoscendone la positività in ogni circostanza nel dialogo con un Mistero buono che si rivela in essa.

LITURGIA ECUMENICA NELLA CHIESA VALDESE

Leggi la Meditazione proposta da don Roberto nella Liturgia ecumenica celebrata nella chiesa valdese di viale Trento 61, a cui hanno partecipato un gruppo di fedeli della Parrocchia San Girolamo.

LA GIUSTIZIA SOVRABBONDANTE
Meditazione di don Roberto Battaglia nella Liturgia Ecumenica
celebrata presso la chiesa Valdese Domenica 22 gennaio 2023

Mt 5,20-25: 20Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli. 21Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. 22Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “Stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “Pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geènna. 23Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, 24lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono.

Il nostro brano (Mt 5,20-25) va collocato nel contesto di tutto il Discorso della montagna (Mt 4,23-7,28) ed in particolare della parte riportata in 5,17-48, di cui l’affermazione del v. 20 è decisiva.
Si tratta di un tema peculiare di Matteo, quello della giustizia maggiore, o giustizia superiore, meglio ancora giustizia sovrabbondante. Il culmine di questa parte del Discorso della montagna sarà il v. 48: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli”. Le parole di Gesù in Mt 5,20 legano la sua affermazione sul compimento di 5,17 (“Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento”) con le antitesi che seguono (“Fu detto… ma Io vi dico”) che esprimono il contenuto del compimento stesso.
Da dove ha origine questa sovrabbondanza di vita che è la giustizia maggiore proposta da Gesù come dimensione determinante dell’esperienza del regno dei cieli, dunque del rapporto con la profondità del reale? Ripercorriamo alcuni dei passaggi in cui ricorre il tema della giustizia in Matteo.
1,19 - Giuseppe uomo giusto è il primo che si apre alla nuova giustizia. Era un uomo giusto ma la sua giustizia non era adeguata a comprendere quello che stava accadendo in Maria. Accogliendo Gesù ancora nel grembo della madre si apre ad una giustizia maggiore, che non annulla ma supera compiendola e portandola al suo pieno significato, l’antica giustizia.
3,15 - Gesù risponde a Giovanni che non voleva battezzarlo: “è conveniente che si compia ogni giustizia”.
5,6 - “Beati gli affamati e gli assetati di giustizia, perché saranno saziati” (la giustizia è la volontà di Dio, il Suo disegno di salvezza”). Torneremo su questa fame e su questa sete.
5,10 - “Beati i perseguitati a causa della giustizia”: si tratta dei perseguitati “a causa di Cristo” (5,11).
6,1 - “Badate di non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli”.
Non si tratta di una polemica con l’ipocrisia di scribi e farisei. Qui siamo nella prospettiva del compimento (cfr. le citazioni di compimento in Mt e il loro significato) non dell’annullamento. Scribi e farisei sono considerati modello di una osservanza della legge scrupolosa e zelante: come si può dunque superare questa giustizia?
Si tratta ancor meno di percorrere una direzione in cui il superamento lo si intende come un ulteriore sforzo etico, perché la giustizia maggiore indicata da Gesù come la condizione per “entrare nel regno dei cieli”, è totalmente altro: essa si compie in un superamento che la realizza nel suo pieno significato proprio in quanto costituisce una novità radicale irriducibile alla precedente.
La sovrabbondanza di vita che è la giustizia maggiore, superiore a quella degli scribi e dei farisei, è invece generata dall’irruzione di Dio nella nostra vita.
La nuova giustizia fiorisce, infatti, dall’accoglienza della novità costituita dall’ingresso di Dio fatto uomo nella storia, che genera un cambiamento radicale, corrispondente al cuore (inteso in senso biblico come la sede della ragione e delle esigenze fondamentali dell’uomo) più di ogni altro tentativo riconducibile ad una giustizia secondo una nostra misura ristretta. Occorre la misura sovrabbondante di Dio (circa la sovrabbondanza secondo una nuova misura cfr. Lc 6,38).
Non dimentichiamo Mt 5,6: “Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia”. Chi può saziare questa fame?
È indispensabile identificare con chiarezza l’ampiezza di questa fame e di questa sete per non accontentarci della giustizia che possiamo compiere davanti agli uomini, la quale è priva della novità che il cuore umano attende, in quanto in essa replichiamo soltanto noi stessi. Ricordiamo Gv 4,1-42, la sete della Samaritana: “Gesù aveva sete di dissetare la sete di lei” dice Gregorio Nazianzeno, e solo la persona stessa di Cristo può soddisfare questa sete infinita.
Ecco il valore delle antitesi che seguono. Come sappiamo l’espressione “Fu detto” è un passivo teologico che indica l’azione di Dio, per cui il ripetersi delle antitesi con l’affermazione “Ma io vi dico” implica la pretesa di un’autorità divina da parte di Gesù e al tempo stesso la natura della giustizia superiore: non soltanto “qualcosa da fare”, ma una presenza da accogliere.
La giustizia maggiore è una Persona.
È il rapporto con la persona di Gesù a rispondere alla fame e alla sete di giustizia della nostra umanità. Solo l’incontro con Lui genera una sovrabbondanza di vita altrimenti inimmaginabile (cfr. Mc 2,12: “Non abbiamo mai visto nulla di simile”).
Non si tratta di osservare dei precetti ma di lasciare entrare nella nostra esistenza questa persona che cambia la nostra vita.
Le antitesi (vedi, ad esempio, quelle sull’omicidio e sull’adulterio) descrivono un altro modo di vivere, ovvero quella novità radicale che è una sovrabbondanza di vita, uno sguardo su di me e sull’altro che solo Cristo può portare. La moralità è lo stupore denso di attrattiva per questa sovrabbondanza di vita generata dall’accettare questo sguardo su di sé.
La giustizia maggiore è il legarsi sempre di più all’origine di questa sovrabbondanza di vita, a Colui che la genera, fino ad immedesimarsi con il suo sguardo alla donna o all’uomo che si ama, al fratello o alla sorella che abbiamo accanto, perfino al nemico.
Non è un’etica ma un’ontologia: non si tratta di “fare delle cose”, ma di entrare nel rapporto col Padre che è nei cieli, cioè nella profondità del reale, nel dialogo con il Mistero da cui siamo strappati dal nulla ora e da cui fiorisce tutta la realtà che abbiamo davanti ai nostri occhi e di cui facciamo parte. Si tratta di entrare nell’intimità col Padre che è nei cieli in un rapporto che non esclude nulla di noi e della realtà, ma ci trascina alla radice di tutto, generando in questo modo quella sovrabbondanza che è la giustizia maggiore. Da qui nascono, in modo assolutamente originale, opere nuove, un “fare” nuovo, la cui origine non possiamo mai dare per scontata, tornando a una nostra giustizia, che non ci salva dal nostro male e non risponde alla nostra sete e alla nostra fame.
Il culmine di questa esperienza è descritto in Mt 5,48: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli”. Anche qui non si tratta di una perfezione che dovremmo raggiungere col nostro sforzo morale, a prescindere da Dio ovvero riducendo la nostra esperienza a un “cristianesimo senza Cristo”. Essere perfetti come il Padre, che “fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” (Mt 5,45), significa accogliere la natura di Dio come misericordia (cfr. Lc 6,36: “Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso”), dunque condotti allo scopo ultimo, al vero significato della giustizia, al compimento della nostra umanità che si realizza nel lasciarci perdonare.
Quando l’autore stesso del Vangelo del compimento e della giustizia maggiore ha sperimentato tutto questo? Nel suo incontro personale con Cristo, lasciandosi abbracciare dalla misericordia con cui è stato guardato (cfr. Mt 9, 9-13).
La giustizia maggiore (sovrabbondante) è quella persona, quello sguardo di misericordia con cui siamo guardati ora e che dice anche a noi adesso: “seguimi” (Mt 9, 9).

Per scaricare il testo completo in formato pdf clicca sul link seguente:

Download Meditazione_di_don_Roberto_Battaglia_nella_Liturgia_ecumenica_-_Chiesa_valdese_22.01.23.pdf

TORNARE ALL’ESSENZIALE PER INCONTRARE L’INQUIETUDINE DEL CUORE UMANO

TORNARE ALL’ESSENZIALE PER INCONTRARE L’INQUIETUDINE DEL CUORE UMANO.
La testimonianza di Joseph Ratzinger e il cammino della Chiesa nel nostro tempo.

Nel 1993 un teologo cattolico, nel contesto di un vivace confronto col collega valdese Paolo Ricca, considerando la possibilità di una diversa modalità nell’esercizio dell’autorità del papa, parlò della necessità di una «essenzializzazione» circa la testimonianza del Dio vivente da parte dei cristiani.
Si trattava di Joseph Ratzinger, il quale, divenuto nel frattempo il 265° papa della chiesa cattolica, circa vent’anni dopo, l’11 febbraio del 2013, compì il più grande gesto riformatore del ministero petrino nell’epoca moderna con la sua storica rinuncia. Sono ormai trascorsi altri dieci anni e la sua morte ci trascina ancora potentemente all’essenziale, a partire dalle ultime parole pronunciate: «Signore, ti amo!».
In una sua nota conferenza sull’ecclesiologia del Vaticano II durante il Giubileo del 2000, l’allora prefetto per la congregazione per la dottrina della fede aveva riproposto la questione già espressa in altri suoi interventi: «Una Chiesa che esiste solo per se stessa è superflua. E la gente lo nota subito. La crisi della Chiesa […] è “crisi di Dio”; essa risulta dall’abbandono dell’essenziale. Ciò che resta, è ormai solo una lotta per il potere».
Ratzinger ci ha testimoniato con tutta la sua vita e la sua opera che non c’è riforma se non a partire dall’essenziale. Proprio qui a Rimini offrì un prezioso contributo sul tema concludendo il Meeting del 1990 con una lectio magistralis sulla riforma ecclesiale, la cui attualità è stata posta in evidenza da papa Francesco che ne ha ripreso i contenuti nel Messaggio alle Pontificie Opere Missionarie del 21 maggio 2020.
Superando ogni tentazione clericale, riconoscibile tanto nelle posizioni tradizionaliste quanto negli schieramenti progressisti, Ratzinger osservò che «quanti più apparati noi costruiamo, siano anche i più moderni, tanto meno c’è spazio per lo Spirito, tanto meno c’è spazio per il Signore, e tanto meno c’è libertà», auspicando per la Chiesa l’inizio, «a tutti i livelli, di un esame di coscienza senza riserve». Non è, infatti, «di una Chiesa più umana che abbiamo bisogno, bensì di una Chiesa più divina; solo allora essa sarà anche veramente umana». Questo «non si realizza per il fatto che noi introduciamo in essa il principio della maggioranza», ma nel momento in cui la Chiesa stessa si riconosce «nel suo puro carattere di servizio», ritraendosi «davanti a ciò che più conta e che è l’essenziale».
La riforma, costitutiva della natura stessa della Chiesa in quanto organismo vivente, fu dunque descritta da Ratzinger come un continuo ritorno all’essenziale, nel recupero di quella dimensione la quale «non è costituita da ciò che noi stessi facciamo, ma da quello che a noi tutti è donato», secondo l’immagine attinta da Michelangelo, il quale «concepiva l’autentica azione artistica come un riportare alla luce, un rimettere in libertà; non come un fare».
La riforma autentica consiste perciò in una ablatio, ovvero nel lasciare spazio all’opera dell’unico vero Scultore che è Dio stesso, togliendo ciò che appesantisce e ripartendo dall’essenziale. In un intervento precedente, anch’esso citato da papa Francesco nella medesima occasione, il teologo bavarese aveva precisato che la Chiesa non può disporre della stessa istituzione ecclesiale con le proprie decisioni poiché essa è costituita «dall’irrompere di qualcos’altro», per cui «non possiamo mai crearcela da noi stessi». Per questo, sottolineava Ratzinger, «la Chiesa deve continuamente verificare la sua propria compagine istituzionale, perché non si appesantisca eccessivamente, non s’irrigidisca in un’armatura che soffochi quella vita spirituale che le è propria e peculiare».
I protagonisti di questa riforma non sono dunque gli attivisti «auto occupati» in strutture clericali, ma dei peccatori perdonati. Lo «Scultore» compie infatti questa ablatio attraverso il perdono che è «il nucleo di ogni vera riforma», la quale si realizza attraverso uomini e donne abbracciati dallo sguardo misericordioso di Cristo in un incontro imprevisto e imprevedibile, come è accaduto a Zaccheo o alla Samaritana.
Uomini e donne in continua ricerca, i quali proprio in quanto credenti sono ancora più inquieti poiché la «conoscenza della fede non soffoca il pensiero, ma lo pone in una inquietudine che è feconda».
La riflessione di Ratzinger sulla ragionevolezza dell’atto di fede ha posto infatti in evidenza che, mentre nel procedimento scientifico il pensiero giunge al termine del suo percorso con l’assenso, nella fede esso rimane in movimento, non si ferma a ciò che è evidente, poiché il cuore – inteso in senso biblico, come la sede del desiderio e della ragione umana – toccato da Dio, va oltre e, quanto più conosce tanto più desidera conoscere. La sperimentata corrispondenza tra il proprio desiderio e l’incontro con Cristo allarga il desiderio stesso, che continua a cercare ciò che ha trovato. Per questo San Tommaso poteva affermare che nel credente «il moto del pensiero rimane inquieto».
Joseph Ratzinger ci ha così insegnato che senza vivere l’inquietudine di una fede verificata dalla ragione nell’esperienza quotidiana non saremo in grado di intercettare la domanda dell’umanità contemporanea.
Nel cammino sinodale della Chiesa di oggi ci riscopriamo più che mai bisognosi del suo richiamo all’essenziale per un’autentica riforma ecclesiale, che non si riduca a dibattiti su strutture clericali ma generi invece luoghi in cui tutti gli uomini e le donne del nostro tempo, credenti e non credenti, possano riconoscere una dimora per la voragine della propria inquietudine, la quale è una «partecipazione all’inquietudine di Dio per noi. Poiché Dio è inquieto nei nostri confronti».

don Roberto Battaglia
BuongiornoRimini del 10.01.2023

Per scaricare il testo in formato pdf clicca sul seguente link:

Download Tornare_all_essenziale_per_incontrare_l_inquietudine_del_cuore_umano_-_BuongiornoRimini_10.01.23.pdf

DIO FATTO CARNE INNAMORATO DELLA NOSTRA VORAGINE

Omelia nella Santa Messa della Notte di Natale, San Girolamo 24 dicembre 2022

«Il Verbo si è fatto carne» (Gv 1,14). Dio ama questa nostra umanità della quale noi spesso siamo scandalizzati e preferisce questa carne di cui noi scarteremmo le ferite. Si tratta di un giudizio di stima radicale su ciò che siamo. Ma perché Dio ama la nostra carne? Perché è innamorato della voragine di bisogno e di desiderio di cui siamo costituiti. Nell’impatto con la realtà la bellezza e il dolore feriscono il nostro cuore, rivelando l’ampiezza infinita di questa stessa ferita e permettendo così la scoperta di quella che il Papa ha chiamato «l’inquietudine della propria voragine» .
Il bambino è posto in una mangiatoia (cfr. Lc 2,7). Dio fattosi carne viene a ridestare la nostra fame e la nostra sete, cercando il desiderio che ci fa uomini. Senza la coscienza di questa fame e di questa sete, ovvero di questa esigenza infinita che ci costituisce, ci accontentiamo di un cibo che non sazia poiché non risponde al nostro bisogno. Per questo, osserva Sant’Agostino, Gesù è posto in una mangiatoia, «come il vero nutrimento di cui l’uomo ha bisogno per il suo essere persona umana» .
Pier Paolo Pasolini descriveva così la propria voragine: «Manca sempre qualcosa, c’è un vuoto / in ogni mio intuire» . Se siamo leali e semplici di cuore, tutti possiamo sorprendere in noi questa «mancanza», nell’esperienza della morte di una persona cara, prendendo coscienza della nostra contingenza per cui non possiamo aggiungere un minuto solo alla nostra vita e a quella di chi amiamo, sperimentando il male che possiamo compiere o ricevere e cercando un bene che è sempre oltre ogni nostro possibile tentativo. Si tratta di un «vuoto» che nessuno dei nostri tentativi può colmare, una «voragine», amata da Gesù, poiché Egli ha sete della nostra sete .
Questo desiderio emerge prepotentemente anche negli uomini e nelle donne del nostro tempo, ma c’è qualcuno che ha paura di prendere fino in fondo sul serio «l’inquietudine della propria voragine»? Ci sono luoghi in cui questa «mancanza» può essere messa a tema?
In uno dei nostri dialoghi durante i ritrovi della Comunità parrocchiale nel tempo di Avvento sono stato profondamente colpito da una di noi che, di fronte alla testimonianza del babbo di una ragazza del Centro21 morta assieme ad altre amiche e amici nel terribile incidente del 7 ottobre scorso, è stata letteralmente folgorata da quel volto lieto, in cui ha riconosciuto una speranza capace di trasformare anche il dolore più grande, intuendo una nuova concezione della vita e di Dio stesso.
Antonio Polito, editorialista del Corriere della Sera, in occasione del funerale del figlio diciottenne di due suoi colleghi, anch’egli colpito dalla possibilità di una speranza intuita nelle parole del sacerdote, che aveva riproposto l’annuncio della Resurrezione, si chiede: «Il nostro tempo, così inquieto, dovrebbe essere il più adatto alla promessa di vita eterna, perché la Chiesa non fa breccia?» (CorriereSette, 11.11.22). Da non credente, è come se avesse voluto dirci: «parlateci di questa speranza, di questo sguardo sulla vita e non di altro».
Ieri sera abbiamo ascoltato la lettura e il commento dell’Inno alla Vergine di Dante, il quale si rivolge a Maria riconoscendola come sorgente di speranza: «qui se’ a noi meridiana face / di caritate e giuso intra i mortali, / se’ di speranza fontana vivace» . Don Luigi Giussani commentando questi versi affermò: «la speranza è l’unica stazione in cui il grande treno dell’eterno si ferma un istante» .
Il bambino che cresce nel grembo di Maria, viene partorito e prende il latte dal suo seno, è precisamente l’incontro tra il tempo e l’eternità.
Il legame con la carne di quell’uomo presente è ciò che permette a questo istante, alla nostra amicizia, all’abbraccio per l’uomo o la donna che si ama, al rapporto coi figli o con gli amici, di non sprofondare nel nulla.
Dio ha scelto questo metodo tra i tanti possibili, che si affida ad un incontro – come ci ricordava Antonio durante il concerto – il quale illumina tutta la realtà, generando uno sguardo nuovo su sé stessi e su ogni circostanza della vita: si tratta della luce di cui parlano le letture di questa notte (cfr. Is 9,1 e Lc 2,9). L’umanità del nostro tempo – a partire dalla nostra – ci chiede questo e la voragine del nostro bisogno non ci fa accontentare di nessuna riduzione del cristianesimo, in quanto inutile per vivere.
Ci rivolgiamo a Maria ancora una volta con i versi di Dante che abbiamo riascoltato ieri sera, riproposti da Marinella in una serata in memoria della nostra amica Monica, che è diventata il gesto in preparazione al Natale per tutta la nostra Comunità: «Nel ventre tuo si raccese l’amore / per lo cui caldo ne l’eterna pace / così è germinato questo fiore» .
Non abbiamo altro da dire a noi stessi e al mondo se non il «calore» di questo abbraccio, che siamo chiamati a comunicare a tutti gli uomini e le donne del nostro tempo, i quali, come noi, attendono una speranza per vivere.
Nessuno di noi, in qualsiasi situazione si trovi, qualunque male abbia provocato o subito, qualunque sofferenza lo affligga, è escluso da questo «calore» da cui siamo strappati dal nulla nell’istante presente e per l’eternità, creati e ricreati da quella Misericordia infinita che è l’unico vero giudizio sulla nostra vita.

Clicca qui per scaricare il testo completo delle note in formato pdf

Download Omelia_nella_S._Messa_della_Notte_di_Natale_2022.pdf

NATALE 2022 - ORARI SS. MESSE E CONFESSIONI

Giovedì 22 e Venerdì 23 dicembre
Don Roberto e padre Daniel saranno disponibili per
le confessioni dalle 16 alle 19 nella Cripta feriale

Sabato 24 dicembre, VIGILIA DI NATALE
Don Roberto e padre Daniel saranno disponibili per
le confessioni dalle 9 alle 12 e dalle 15 alle 19

Ore 17.30 Santa Messa festiva della Vigilia di Natale

Ore 22 SANTA MESSA DELLA NOTTE DI NATALE

Domenica e lunedì 25-26 dicembre
NATALE DEL SIGNORE E
FESTA DI SANTO STEFANO
SS. Messe ore 9 - 11 -17.30

SE' DI SPERANZA FONTANA VIVACE - VENERDI' 23 DICEMBRE ORE 21

SE' DI SPERANZA FONTANA VIVACE
Serata in preparazione al Natale con lettura e commento dell’Inno alla Vergine di Dante (Paradiso, Canto XXXIII) a cura di Marinella De Luca
Musiche e canti a cura di Elena
Magnani e Antonio Patané
In memoria di Monica Mariani Bonori

Venerdì 23 dicembre ore 21 nella nostra chiesa parrocchiale

CONCERTO DI NATALE DEL CORO DI SAN GIROLAMO - MARTEDI' 20 DICEMBRE ORE 21

Concerto di Natale del Coro di San Girolamo, con la partecipazione del Coro di San Raffaele - Martedì 20 dicembre ore 21 nella nostra chiesa parrocchiale:

I PRIMI RITROVI DELL’ANNO COI RAGAZZI DELLE MEDIE

“Ma se tutti insieme non possiamo creare neanche un sassolino, perché solo Dio lo può fare, cosa significa che ognuno di noi vale più dell’intero universo, come ci siamo detti in campeggio?”

Con la domanda inaspettata di una ragazza nel corso di un interessante dialogo durante la pizza con alcuni giovanissimi di 2a-3a media e 1a superiore, dopo aver ascoltato il video della testimonianza di una giovane più grande, ricominciano i ritrovi dei ragazzi delle medie tra tornei di biliardino e film in teatro.

INCONTRARE E APPASSIONARE CON LA GIOIA DEL VANGELO - INTERVISTA AL CARD. ZUPPI PRESIDENTE DELLA CEI

Scarica l'intervista al card. Zuppi, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana

Download 94IntZuppi_CorSera.pdf

60` Anniversario dell’ Apertura del Concilio Vaticano II “RISCOPRIAMO IL CONCILIO PER RIDARE IL PRIMATO A DIO, ALL’ESSENZIALE”

Leggi l'articolo di don Roberto su newsrimini:
Il 60° anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II e l’attuale percorso sinodale.

Esattamente 60 anni fa, l’11 ottobre 1962, Giovanni XXIII dava inizio al Concilio Vaticano II, esprimendo l’esigenza di un aggiornamento della Chiesa in ordine al «modo» in cui riproporre
l’annuncio cristiano: «la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore; pensa che si debba andare incontro alle necessità odierne esponendo più chiaramente il valore del suo insegnamento piuttosto che condannando» (Discorso di apertura).

Il nesso tra questa esigenza di rinnovamento e la misericordia fu richiamato dall’allora card. Ratzinger nel suo intervento al Meeting di Rimini del 1990, quando disse che l’esperienza del
perdono è «il nucleo di ogni vera riforma», evidenziando come nei vangeli essa sia presentata all’origine della Chiesa, parte dell’autorità conferita a Pietro (Mt 16,19) e fattore costitutivo della nuova comunità nell’Ultima Cena, possibile in virtù del fatto che Gesù versa il suo sangue «per il perdono dei peccati» (Mt 26,28), fino alla facoltà di perdonare conferita a tutti gli Apostoli (Gv 20, 19-23).
Nel “Sì” di Pietro (Gv 21, 15-19), poggiato su Cristo che lo riabbraccia dopo il rinnegamento, riconosciamo che solo chi si lascia generare dal perdono può comunicare questa stessa esperienza in ogni incontro umano, usando «la medicina della misericordia». La «riforma del perdono» di cui parlò Ratzinger fu riproposta dall’attuale pontefice indicendo il Giubileo della misericordia nel 50° anniversario della conclusione dello stesso Vaticano II e guardando al Concilio come un evento in cui la Chiesa stessa si è scoperta costituita da uno sguardo di misericordia (cfr. Misericordiae vultus, 4).

Papa Bergoglio poneva in questo modo la Chiesa innanzitutto di fronte a Dio prima che di fronte al mondo, in quanto bisognosa anch’essa di misericordia come l’intera umanità. Proprio nel superamento di ogni “ecclesiocentrismo” autoreferenziale si realizza un autentico rinnovamento, come aveva detto in precedenza a Firenze: «la riforma della Chiesa – e la Chiesa è semper reformanda – è aliena dal pelagianesimo. Essa non si esaurisce nell’ennesimo piano per cambiare le strutture. Significa invece innestarsi e radicarsi in Cristo lasciandosi condurre dallo Spirito» (10.11.15). Francesco ha poi ribadito che solo in questa direzione si vive un’autentica sinodalità, «la quale presuppone e richiede l’irruzione dello Spirito Santo», vincendo la tentazione del «nuovo pelagianesimo» che produce solamente «riforme puramente strutturali, organiche o burocratiche» (Lettera al Popolo di Dio che è in cammino in Germania, 29.06.19).

Nella medesima direzione Benedetto XVI, in vari interventi nell’ottobre di dieci anni fa, sempre ricordando l’inizio del Vaticano II, definì il Concilio come «evento dello Spirito», precisando che «la Chiesa non comincia con il “fare” nostro ma con il “fare” e il “parlare” di Dio. Così gli Apostoli non hanno detto, dopo alcune assemblee: adesso vogliamo creare una Chiesa; e con la forma di una costituente avrebbero elaborato una costituzione. No, hanno pregato e in preghiera hanno aspettato, perché solo Dio stesso può creare la sua Chiesa» (10.10.12). La Chiesa è un evento generato «dall’irruzione dello Spirito Santo», e, come lo stesso Concilio è stato un «evento dello Spirito», anche il percorso sinodale che stiamo vivendo porterà frutto nell’apertura alla modalità imprevista e imprevedibile in cui accade l’incontro con Gesù. La riforma cui siamo chiamati non è dunque affidata ad attivisti dell’organizzazione ecclesiastica o a strateghi delle «pianificazioni perfette», ma a uomini e donne commossi per l’incontro con «la presenza carnale e fisica di Cristo», che introduce «una nuova luce dentro gli spazi d’ombra abitati fino a quel momento», come ha detto un’amica in un’assemblea della mia comunità parrocchiale. Non una comunità di puri, ma di peccatori perdonati, i quali, come mendicanti tra altri mendicanti, condividono le domande e le ferite di tutti, senza avere altra risorsa se non l’attrattiva che ho riconosciuto in questi giorni nei volti certi e lieti di amici che vivono situazioni di grande dolore con una speranza altrimenti impensabile. Uomini e donne che vivono questa intensità generano luoghi e rapporti in cui l’umanità di chi cerca un senso per vivere può trovare una dimora nella quale essere abbracciata interamente. Solo così l’annuncio cristiano risulta credibile in un tempo in cui la cristianità non esiste più.

Per questo il percorso sinodale può aiutarci a comprendere che il cambiamento d’epoca che stiamo vivendo è un’occasione per riscoprire l’autentica natura del cristianesimo. Don Luigi Giussani, di cui sabato prossimo sarà celebrato il centenario della nascita nell’Udienza con Papa Francesco alla quale parteciperanno tantissimi riminesi, lo espresse intervenendo al Sinodo sui laici: «L’uomo di oggi attende forse inconsapevolmente l’esperienza dell’incontro con persone per le quali il fatto di Cristo è realtà così presente che la vita loro è cambiata. È un impatto umano che può scuotere l’uomo di oggi: un avvenimento che sia eco dell’avvenimento iniziale, quando Gesù alzò gli occhi e disse: “Zaccheo, scendi subito, vengo a casa tua” (cfr. Lc 19,5)» (09.10.87). Innanzitutto noi, sacerdoti e laici, come tutti coloro che incontriamo, abbiamo bisogno di questo sguardo alla nostra umanità ferita e bisognosa, espresso nella parabola del Samaritano (Lc 10, 25-37) che Paolo VI, a conclusione del Vaticano II, indicò come «il paradigma della spiritualità del Concilio» (07.12.65). Lo mendichiamo, in giorni drammatici che ricordano “la crisi dei missili di Cuba” dell’ottobre di sessant’anni fa, implorando la pace con tutti i nostri fratelli e sorelle, uomini e donne del nostro tempo.

don Roberto Battaglia

60` Anniversario dell’ Apertura del Concilio Vaticano II “RISCOPRIAMO IL CONCILIO PER RIDARE IL PRIMATO A DIO, ALL’ESSENZIALE”

L'Omelia del Papa l'11 ottobre 2022
«Mi ami?». È la prima frase che Gesù rivolge a Pietro nel Vangelo che abbiamo ascoltato (Gv 21,15). L’ultima, invece, è: «Pasci le mie pecore» (v. 17). Nell’anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II sentiamo rivolte anche a noi, a noi come Chiesa, queste parole del Signore: Mi ami? Pasci le mie pecore.

1. Anzitutto: Mi ami? È un interrogativo, perché lo stile di Gesù non è tanto quello di dare risposte, ma di fare domande, domande che provocano la vita. E il Signore, che «nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi» (Dei Verbum, 2), chiede ancora, chiede sempre alla Chiesa, sua sposa: “Mi ami?”. Il Concilio Vaticano II è stato una grande risposta a questa domanda: è per ravvivare il suo amore che la Chiesa, per la prima volta nella storia, ha dedicato un Concilio a interrogarsi su sé stessa, a riflettere sulla propria natura e sulla propria missione. E si è riscoperta mistero di grazia generato dall’amore: si è riscoperta Popolo di Dio, Corpo di Cristo, tempio vivo dello Spirito Santo!

Questo è il primo sguardo da avere sulla Chiesa, lo sguardo dall’alto. Sì, la Chiesa va guardata prima di tutto dall’alto, con gli occhi innamorati di Dio. Chiediamoci se nella Chiesa partiamo da Dio, dal suo sguardo innamorato su di noi. Sempre c’è la tentazione di partire dall’io piuttosto che da Dio, di mettere le nostre agende prima del Vangelo, di lasciarci trasportare dal vento della mondanità per inseguire le mode del tempo o di rigettare il tempo che la Provvidenza ci dona per volgerci indietro. Stiamo però attenti: sia il progressismo che si accoda al mondo, sia il tradizionalismo – o l’ “indietrismo” – che rimpiange un mondo passato, non sono prove d’amore, ma di infedeltà. Sono egoismi pelagiani, che antepongono i propri gusti e i propri piani all’amore che piace a Dio, quello semplice, umile e fedele che Gesù ha domandato a Pietro.

Mi ami tu? Riscopriamo il Concilio per ridare il primato a Dio, all’essenziale: a una Chiesa che sia pazza di amore per il suo Signore e per tutti gli uomini, da Lui amati; a una Chiesa che sia ricca di Gesù e povera di mezzi; a una Chiesa che sia libera e liberante. Il Concilio indica alla Chiesa questa rotta: la fa tornare, come Pietro nel Vangelo, in Galilea, alle sorgenti del primo amore, per riscoprire nelle sue povertà la santità di Dio (cfr Lumen gentium, 8c; cap. V). Anche noi, ognuno di noi ha la propria Galilea, la Galilea del primo amore, e sicuramente anche ognuno di noi oggi è invitato a tornare alla propria Galilea per sentire la voce del Signore: “Seguimi”. E lì, per ritrovare nello sguardo del Signore crocifisso e risorto la gioia smarrita, per concentrarsi su Gesù. Ritrovare la gioia: una Chiesa che ha perso la gioia ha perso l’amore. Verso la fine dei suoi giorni Papa Giovanni scriveva: «Questa mia vita che volge al tramonto meglio non potrebbe essere risolta che nel concentrarmi tutto in Gesù, figlio di Maria… grande e continuata intimità con Gesù, contemplato in immagine: bambino, crocifisso, adorato nel Sacramento» (Giornale dell’anima, 977-978). Ecco il nostro sguardo alto, ecco la nostra sorgente sempre viva: Gesù, la Galilea dell’amore, Gesù che ci chiama, Gesù che ci domanda: “Mi ami?”.

Fratelli, sorelle, ritorniamo alle pure sorgenti d’amore del Concilio. Ritroviamo la passione del Concilio e rinnoviamo la passione per il Concilio! Immersi nel mistero della Chiesa madre e sposa, diciamo anche noi, con San Giovanni XXIII: Gaudet Mater Ecclesia! (Discorso all’apertura del Concilio, 11 ottobre 1962). La Chiesa sia abitata dalla gioia. Se non gioisce smentisce sé stessa, perché dimentica l’amore che l’ha creata. Eppure, quanti tra noi non riescono a vivere la fede con gioia, senza mormorare e senza criticare? Una Chiesa innamorata di Gesù non ha tempo per scontri, veleni e polemiche. Dio ci liberi dall’essere critici e insofferenti, aspri e arrabbiati. Non è solo questione di stile, ma di amore, perché chi ama, come insegna l’Apostolo Paolo, fa tutto senza mormorare (cfr Fil 2,14). Signore, insegnaci il tuo sguardo alto, a guardare la Chiesa come la vedi Tu. E quando siamo critici e scontenti, ricordaci che essere Chiesa è testimoniare la bellezza del tuo amore, è vivere in risposta alla tua domanda: mi ami? Non è andare come se fossimo a una veglia funebre.

2. Mi ami? Pasci le mie pecore. La seconda parola: Pasci. Gesù esprime con questo verbo l’amore che desidera da Pietro. Pensiamo proprio a Pietro: era un pescatore di pesci e Gesù lo aveva trasformato in pescatore di uomini (cfr Lc 5,10). Ora gli assegna un mestiere nuovo, quello di pastore, che non aveva mai esercitato. Ed è una svolta, perché mentre il pescatore prende per sé, attira a sé, il pastore si occupa degli altri, pasce gli altri. Di più, il pastore vive con il gregge, nutre le pecore, si affeziona a loro. Non sta al di sopra, come il pescatore, ma in mezzo. Il pastore è davanti al popolo per segnare la strada, in mezzo al popolo come uno di loro, e dietro al popolo per essere vicino a coloro che vanno in ritardo. Il pastore non sta al di sopra, come il pescatore, ma in mezzo. Ecco il secondo sguardo che ci insegna il Concilio, lo sguardo nel mezzo: stare nel mondo con gli altri e senza mai sentirci al di sopra degli altri, come servitori del più grande Regno di Dio (cfr Lumen gentium, 5); portare il buon annuncio del Vangelo dentro la vita e le lingue degli uomini (cfr Sacrosanctum Concilium, 36), condividendo le loro gioie e le loro speranze (cfr Gaudium et spes, 1). Stare in mezzo al popolo, non sopra il popolo: questo è il peccato brutto del clericalismo che uccide le pecore, non le guida, non le fa crescere, uccide. Quant’è attuale il Concilio: ci aiuta a respingere la tentazione di chiuderci nei recinti delle nostre comodità e convinzioni, per imitare lo stile di Dio, che ci ha descritto oggi il profeta Ezechiele: “andare in cerca della pecora perduta e ricondurre all’ovile quella smarrita, fasciare quella ferita e curare quella malata” (cfr Ez 34,16).

Pasci: la Chiesa non ha celebrato il Concilio per ammirarsi, ma per donarsi. Infatti la nostra santa Madre gerarchica, scaturita dal cuore della Trinità, esiste per amare. È un popolo sacerdotale (cfr Lumen gentium, 10 ss.): non deve risaltare agli occhi del mondo, ma servire il mondo. Non dimentichiamolo: il Popolo di Dio nasce estroverso e ringiovanisce spendendosi, perché è sacramento di amore, «segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Lumen gentium, 1). Fratelli e sorelle, torniamo al Concilio, che ha riscoperto il fiume vivo della Tradizione senza ristagnare nelle tradizioni; che ha ritrovato la sorgente dell’amore non per rimanere a monte, ma perché la Chiesa scenda a valle e sia canale di misericordia per tutti. Torniamo al Concilio per uscire da noi stessi e superare la tentazione dell’autoreferenzialità, che è un modo di essere mondano. Pasci, ripete il Signore alla sua Chiesa; e pascendo, supera le nostalgie del passato, il rimpianto della rilevanza, l’attaccamento al potere, perché tu, Popolo santo di Dio, sei un popolo pastorale: non esisti per pascere te stesso, per arrampicarti, ma per pascere gli altri, tutti gli altri, con amore. E, se è giusto avere un’attenzione particolare, sia per i prediletti di Dio cioè i poveri, gli scartati (cfr Lumen gentium, 8c; Gaudium et spes, 1); per essere, come disse Papa Giovanni, «la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri» (Radiomessaggio ai fedeli di tutto il mondo a un mese dal Concilio Ecumenico Vaticano II, 11 settembre 1962).

3. Mi ami? Pasci – conclude il Signore – le mie pecore. Non intende solo alcune, ma tutte, perché tutte ama, tutte chiama affettuosamente “mie”. Il buon Pastore vede e vuole il suo gregge unito, sotto la guida dei Pastori che gli ha dato. Vuole – terzo sguardo – lo sguardo d’insieme: tutti, tutti insieme. Il Concilio ci ricorda che la Chiesa, a immagine della Trinità, è comunione (cfr Lumen gentium, 4.13). Il diavolo, invece, vuole seminare la zizzania della divisione. Non cediamo alle sue lusinghe, non cediamo alla tentazione della polarizzazione. Quante volte, dopo il Concilio, i cristiani si sono dati da fare per scegliere una parte nella Chiesa, senza accorgersi di lacerare il cuore della loro Madre! Quante volte si è preferito essere “tifosi del proprio gruppo” anziché servi di tutti, progressisti e conservatori piuttosto che fratelli e sorelle, “di destra” o “di sinistra” più che di Gesù; ergersi a “custodi della verità” o a “solisti della novità”, anziché riconoscersi figli umili e grati della santa Madre Chiesa. Il Signore non ci vuole così. Tutti, tutti siamo figli di Dio, tutti fratelli nella Chiesa, tutti Chiesa, tutti. Noi siamo le sue pecore, il suo gregge, e lo siamo solo insieme, uniti. Superiamo le polarizzazioni e custodiamo la comunione, diventiamo sempre più “una cosa sola”, come Gesù ha implorato prima di dare la vita per noi (cfr Gv 17,21). Ci aiuti in questo Maria, Madre della Chiesa. Accresca in noi l’anelito all’unità, il desiderio di impegnarci per la piena comunione tra tutti i credenti in Cristo. Lasciamo da parte gli “ismi”: al popolo di Dio non piace questa polarizzazione. Il popolo di Dio è il santo popolo fedele di Dio: questa è la Chiesa. È bello che oggi, come durante il Concilio, siano con noi rappresentanti di altre Comunità cristiane. Grazie! Grazie per essere venuti, grazie per questa presenza.

Ti rendiamo grazie, Signore, per il dono del Concilio. Tu che ci ami, liberaci dalla presunzione dell’autosufficienza e dallo spirito della critica mondana. Liberaci dell’autoesclusione dall’unità. Tu, che ci pasci con tenerezza, portaci fuori dai recinti dell’autoreferenzialità. Tu, che ci vuoi gregge unito, liberaci dall’artificio diabolico delle polarizzazioni, degli “ismi”. E noi, tua Chiesa, con Pietro e come Pietro ti diciamo: “Signore, tu sai tutto; tu sai che noi ti amiamo” (cfr Gv 21,17).

FESTA DI SAN GIROLAMO CON L'ASSEMBLEA DI INIZIO DELL'ANNO PASTORALE

L’incontro iniziale dell’Anno pastorale si è svolto venerdì 23 settembre, nel contesto della Festa di San Girolamo, in dialogo con mons. Erio Castellucci, Vicepresidente della CEI e membro del Gruppo di coordinamento del cammino Sinodale in Italia, in videocollegamento dal Congresso eucaristico nazionale di Matera. Dopo le parole con cui Erika Guidi ha descritto la nostra esperienza in questi ultimi due anni, l’arcivescovo di Modena ha approfondito la crisi ecclesiale nel contesto delle crisi che il mondo sta attraversando, dalla pandemia alla guerra, precisando che «il nostro riferimento non sono i sociologi, ma il Mistero Pasquale», da cui nasce «uno sguardo spirituale sulla realtà». Il lavoro di tutti i gruppi sinodali in Italia ha messo in evidenza l’urgenza di «recuperare le relazioni», affinché «le nostre comunità non siano solo ambiti organizzativi» ma luoghi in cui si possa «comunicare “qualcosa di più” in tutto quello che facciamo». Marinella ha riconosciuto "qualcosa di più" in uno sguardo interessato a «come stai veramente», che introduce «una nuova luce dentro gli spazi d’ombra» e fa incontrare Cristo come «una presenza carnale e fisica».
I Vangeli narrano questa esperienza, ha concluso don Erio riferendosi ad altri interventi dei presenti, per cui occorre «lasciarsi ferire» da ogni incontro, certi che «ciò che è seminato germoglierà» in tempi che non sono nostri.
Domenica 25 settembre ci siamo ritrovati per la Santa Messa solenne accompagnata dai canti del nostro coro e per il pranzo comunitario, al quale hanno partecipato 150 persone tra adulti e ragazzi; c'erano anche gli amici della Capanna di Betlemme, ormai da anni presenti alla nostra Festa.
GRAZIE A TUTTI COLORO CHE HANNO AIUTATO NELLA PREPARAZIONE DELLA FESTA

Leggi la pagina sul settimanale diocesano Il Ponte dedicata all'Assemblea di venerdì 23 settembre:

Download Il_Ponte_del_02.10.22_p._10.pdf

IL PAPA CONFERMA LA FIDUCIA A MONS. FRANCESCO LAMBIASI CHE CONTINUA IL MINISTERO DI PASTORE DELLA NOSTRA DIOCESI IN ATTESA DELLA NOMINA DEL NUOVO VESCOVO

Leggi il comunicato della Diocesi di Rimini

Download Lettera_Nunzio_Apostolico.pdf

INTERVISTA AL CARD. ZUPPI DOPO LE ELEZIONI

Scarica l'intervista al card. Matteo Zuppi, Presidente della CEI, pubblicata su Avvenire del 28 settembre 2022 (a cura di M. Muolo):

Download Int._card._Zuppi_-_Avvenire_del_28.09.22_p._1_e_4.pdf

INCONTRO CON MONS. CASTELLUCCI: VENERDI' 23 SETTEMBRE ORE 21

Assemblea di inizio dell'Anno pastorale con mons. Erio Castellucci, Arcivescovo di Modena e Vicepresidente della Conferenza Episcopale Italiana, membro del Gruppo di coordinamento nazionale del cammino sinodale, venerdì 23 settembre alle ore 21 nella Sala dell'Oratorio

Download IL_PONTE-parrocchia_san_girolamo.pdf

FESTA PARROCCHIALE 23-25 SETTEMBRE 2022

Programma della Festa parrocchiale di San Girolamo

Per scaricare il programma in formato pdf clicca sulla riga seguente:

Download Volantino_per_la_Festa_di_San_Girolamo_25.09.22.pdf

"UNA PASSIONE PER L'UOMO" - INTERVENTO DEL CARD. ZUPPI AL MEETING

Il card. Zuppi ha concluso il suo intervento citando un racconto di don Giussani:
In un viaggio in Brasile, don Giussani incontra un gruppo di missionari del PIME in una cittadina presso il Rio delle Amazzoni e così racconta.
Padre Angelo Biraghi, grande e grosso, mi dice una sera: "Accompagnami in un pezzo di desobriga (visita pastorale alla comunità), e ho visto che lo diceva con un aria un po’ sorniona, un po’ ironica, ma io ho detto di si. Sono andato e a un certo punto, dopo qualche ora di macchina, si fermava tutto, la macchina doveva tornare indietro, iniziava un pantano che doveva attraversare in otto ore, ed era già verso sera (c'era un nugolo di moscerini che faceva venire la faccia gonfia). A quel punto padre Biraghi gli dice: "Guarda, scherzavo: torna indietro tu". quindi il padre missionario "si è messo le galosce che gli arrivavano fino alla vita, e poi ho capito perché mi aveva detto così: ha incominciato ad entrare in quel fango fino all'anca e ci voleva un minuto per fare un metro. E io ero là che lo vedevo allontanarsi e lui che si voltava indietro, mi salutava, sorrideva col sorriso sornione del giorno prima, ed era sera, e il sole lì cade in un quarto d'ora, quindi oramai imbruniva e lo vedevo un po’ lontano, e la sua prima meta, dopo otto ore, era un serengueiro che stava tirando fuori, in quella zona della foresta, la gomma dagli alberi". Giussani non lo dimenticherà per tutta la vita: "Racconto sempre ai miei amici questo particolare ... sarò stato lì almeno mezz'ora senza muovermi pensando: "Ma guarda cos'è il cristianesimo! Quest'uomo che rischia la pelle per uno (uno!) per andare a trovare uno che prima non aveva mai conosciuto e che magari non avrebbe mai più visto nella vita. ... In quell'istante , in quel momento ebbi la percezione vivida del fatto che il cristianesimo nasce proprio dall'amore all'uomo.

Per rivedere il video dell'intervento integrale del card. Zuppi cliccate sul seguente link:
https://www.youtube.com/watch?v=B9DOcZpj_K0

LA "PORTA STRETTA" DI UNA STORIA PARTICOLARE

Omelia nel 61° anniversario della nascita della Beata Sandra Sabattini, San Girolamo 20.08.2022

Dio irrompe nella vicenda umana sempre attraverso la «porta stretta» (Lc 13,24) di una storia particolare. Come dice il Concilio Vaticano II, la stessa Rivelazione è una economia che «comprende eventi e parole intimamente connessi tra loro» (Dei Verbum 2). Una storia particolare, formata da fatti e volti di persone, come quella attraverso la quale Sandra è stata afferrata da Cristo fino a farla tutta Sua, fin dal primo incontro accaduto proprio qui in parrocchia attraverso don Oreste, invitato dallo zio don Giuseppe, primo parroco di San Girolamo, a cui è seguita l’esperienza travolgente del primo campo in montagna con gli amici dell’Associazione Papa Giovanni XXIII.
Ringraziando Dio per il dono della nostra Beata nel 61° anniversario della sua nascita in terra, noi vogliamo innanzitutto vivere la memoria del primo incontro. Essa è decisiva affinché l’azione pastorale delle nostre Comunità sia fedele al metodo dell’incarnazione e, perciò, realmente centrata in Cristo: «fare memoria vuol dire fondarsi nuovamente in Gesù, nella sua vita» (Alla Comunità del Collegio Internazionale del Gesù di Roma, 3 dicembre 2018). Solo in questa fedeltà può esserci un’autentica fecondità, generata dal contagio dell’attrattiva testimoniata nella semplicità e nella concretezza evangelica, che Francesco invita costantemente a riscoprire, suggerendo, tra l’altro, di «prendere i Vangeli e rileggere le tante storie che ci sono per vedere come Gesù incontra la gente, come sceglie gli apostoli» (Omelia a Santa Marta, 24 aprile 2015).
Il metodo che riconosciamo nell’inizio è il medesimo in cui si rinnova l’incontro con Cristo in ogni luogo e in ogni tempo: esso implica sempre la testimonianza di una persona attraverso la quale siamo attratti da Gesù secondo una precisa modalità del Suo sguardo. In questa prospettiva si colloca il significato autentico dei carismi che sono all’origine delle diverse esperienze ecclesiali, personali e comunitarie, dagli ordini religiosi ai movimenti di ogni tempo, secondo la pluralità di forme suscitata dallo Spirito Santo in ogni epoca della Chiesa, fino alla storia particolare di ogni singola comunità e di ciascun fedele: «il nostro incontro con Cristo ha preso la sua forma nella Chiesa mediante il carisma di un suo testimone, di una sua testimone. Questo sempre ci stupisce e ci fa rendere grazie» (Omelia nella Festa della Presentazione di Gesù al tempio, 2 febbraio 2014).
Una storia particolare «è la chiave di volta della concezione cristiana dell’uomo, della sua moralità, nel suo rapporto con Dio, con la vita, con il mondo» (L. Giussani, Generare tracce nella storia del mondo, p. 82).
Nel corso di una cena presso una famiglia della nostra parrocchia, una signora anziana ha raccontato le modalità del primo incontro con suo marito, coi giovani nipoti colpiti dal fatto che è accaduto tutto fin dal primo istante, che, lei stessa sottolineava, era «un momento qualsiasi», in cui è successo qualcosa che ha segnato le loro vite per sempre.
Questa è la dinamica dell’esperienza cristiana, quella di un incontro imprevisto e imprevedibile che accade in “un momento qualsiasi” della nostra esistenza, il quale diventa il momento decisivo, che cambia tutto. Se perdiamo questo metodo, perdiamo tutto del cristianesimo, perché nell’evento dell’incarnazione «sta sia il contenuto che il metodo dell’annuncio cristiano» (Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti all’Assemblea plenaria della Congregazione per il Clero, 16 marzo 2009). Nessuno di noi in apparenza nega Cristo, ma, non di rado, lo si nega come metodo non partendo più dalla storia particolare in cui Egli ci afferra ora, riducendo così il cristianesimo a una dottrina, a un’etica, a un pio intendimento devozionale o ad uno sforzo morale, al punto che dell’esperienza cristiana non rimane più nulla, pur dentro una sua affermazione teorica: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”. Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove siete”. […] Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi» (Lc 13,24-27a.29-30).
La “porta stretta” la riconosce chi, come Sandra, prende sul serio tutta l’esigenza della propria umanità, ovvero «il bisogno di infinito che è dentro di noi e che non possiamo far finta di ignorare», come scriveva pochi giorni prima di compiere vent’anni, sottolineando che «l’infinito è lì che ci aspetta ogni volta che cadono le “posticce” risposte che abbiamo dato al suo bisogno» (Diario, 07 agosto1981).
Il testo di una canzone contemporanea (Anyone di Demi Lovato) esprime tutto il grido dell’umanità di cui siamo costituiti: «Ho provato a parlare con il mio pianoforte / Ho provato a parlare con la mia chitarra / A parlare con la mia immaginazione / Mi sono confidata con l’alcool / […] Sono stanca di conversazioni vuote / Perché nessuno mi ascolta più […] Quindi, perché sto pregando comunque? /
Se nessuno sta ascoltando / Per favore, mandami qualcuno / Signore, c’è qualcuno? / Ho bisogno di qualcuno, oh / Per favore, mandami qualcuno / Signore, c’è qualcuno? / Ho bisogno di qualcuno».
La “porta stretta” è Qualcuno che risponde, in una storia particolare, accolta e accettata non da chi non sbaglia mai, ma da chi è leale fino in fondo con questo bisogno e per questo si commuove quando esso emerge nella propria carne e in quella dei nostri fratelli e sorelle, uomini e donne del nostro tempo, anche loro, come noi, stanchi di «conversazioni vuote».
Costoro sono «gli ultimi che diventano i primi» (cfr. Lc 13,30).
Domandiamo l’intercessione della nostra Beata Sandra Sabattini per essere, come lei, tra loro.

Per scaricare il testo integrale in formato pdf clicca sulla riga seguente:

Download Omelia_nel_61__anniversario_della_nascita_della_Beata_Sandra_Sabattini.pdf