TERZO VENERDI' DI QUARESIMA

Introduzione
Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Amen.
Padre nostro che sei nei cieli, venga il tuo regno! Ravviva il dono del tuo Spirito per la nostra santa Chiesa perché viva il tempo che tu le concedi come tempo di grazia…
Momenti della preghiera
– Ascolto del brano della Parola di Dio (v. sotto)
– Silenzio (lettura personale della riflessione)
– Condivisione delle preghiere di intercessione (v. sotto)
– Lettura della preghiera (v. sotto)
Padre nostro
Preghiera finale
Padre nostro che sei nei cieli, rendici disponibili all’ascolt0 reciproco, donaci parole sincere e sapienti, liberaci dalla presunzione e dallo scetticismo.
Padre nostro che sei nei cieli, aiutaci ad essere docili alle rivelazioni che tu riservi ai piccoli e aperti alla gioia di camminare e di pensare insieme.
Padre nostro che sei nei cieli, il tuo nome sia benedetto nei secoli e la terra sia piena della tua gloria. Amen.
E la tua benedizione di Padre, Figlio e Spirito Santo discenda su di noi e con noi rimanga sempre.
Amen.
LA NOSTRA VITA IN SOLITUDINE
Vivere una vita cristiana significa vivere nel mondo senza essere del mondo. È nella solitudine che questa libertà interiore può crescere e svilupparsi. Gesù si recò in un luogo solitario per pregare, cioè per crescere nella consapevolezza che tutto il potere che deteneva gli era stato conferito; che tutte le parole che proferiva venivano da suo Padre; e che tutte le opere che compiva non erano realmente sue, ma opere di Colui che lo aveva inviato. In quel luogo di solitudine, Gesù fu lasciato libero di fallire. Una vita che non conosca un luogo di solitudine, una vita, cioè, priva di un centro quieto, facilmente diventa preda di dinamiche distruttive. Quando ci aggrappiamo ai risultati delle nostre azioni facendone il nostro unico mezzo d’autoidentificazione, diventiamo possessivi, inclini a tenerci sulla difensiva, a considerare il nostro prossimo più come un nemico da tenere a distanza che come un amico con cui condividere i doni della vita. In solitudine, gradatamente acquisiamo invece la capacità di smascherare la natura illusoria della nostra possessività, e di scoprire, nel profondo del nostro essere, che noi non siamo, ciò che possiamo conquistare, bensì ciò che ci è dato. In solitudine possiamo ascoltare la voce di colui che ci parlò prima che noi potessimo proferire una sola parola, che ci sanò prima che noi potessimo fare un solo gesto in aiuto degli altri, che ci liberò assai prima che noi fossimo in grado di liberare altri e che ci amò assai prima che noi potessimo amare chiunque altro. E in questa solitudine che scopriamo che essere è più importante che avere, e che il nostro valore risiede in qualcosa di maggiore dei meri risultati dei nostri sforzi. In solitudine, noi scopriamo che la nostra vita non è un possesso da difendere, ma un dono da condividere È in essa che ci rendiamo conto che le parole benefiche che pronunciamo non scaturiscono da noi, ma piuttosto ci vengono date; che l’amore che riusciamo ad esprimere è parte di un amore più grande; e che la vita nuova che generiamo non è una proprietà gelosa a cui aggrapparsi, ma un dono da ricevere. In solitudine, noi maturiamo la consapevolezza che il nostro valore non coincide con la nostra utilità. Molto ci può insegnare, a questo proposito, il vecchio albero di quella storia Tao che narra d’un falegname e del suo apprendista:
Un falegname e il suo apprendista attraversavano, camminando fianco a fianco, una vasta foresta. Si imbatterono in una quercia alta, enorme, nodosa, annosa, stupenda, e il falegname domandò al suo apprendista:
«Sai perché quest’albero è così alto, enorme, nodoso, annoso e stupendo?».
L’apprendista guardò il proprio maestro e rispose:
«No … perché?».
«Ebbene», disse il falegname, «perché è inutile. Se fosse stato utile, già da tempo sarebbe stato abbattuto e trasformato in tavoli e sedie, ma, essendo inutile, ha potuto crescere sino a divenire così alto e magnifico che ora ci si può sedere all’ombra delle sue fronde, e riposare».
In solitudine possiamo invecchiare serenamente, affrancati dall’ossessione di essere utili, e troviamo l’opportunità di offrire un servizio che non avevamo pianificato. Nella misura in cui abbiamo perduto le cose che ci facevano dipendere da questo mondo, qualsiasi cosa «mondo» significhi — padre, madre, figli, carriera, successo o riconoscimenti —, ecco che possiamo dar vita ad una comunità di fede in cui vi sia poco da difendere, ma molto da condividere. Perché, come comunità di fede, prendiamo il mondo sul serio, ma mai troppo sul serio. In una comunità di questo tipo possiamo adottare un po’ della mentalità di Papa Giovanni, un uomo capace di ridere di se stesso. Quando un alto funzionario gli domandò: «Santo Padre, quante persone lavorano in Vaticano?», egli esitò un attimo e poi rispose: «Beh, suppongo circa la metà di loro». Come comunità di fede lavoriamo intensamente, ma la carenza di risultati non ci distrugge. E come comunità di fede ci rammentiamo costantemente a vicenda che formiamo una compagnia di deboli, la cui debolezza è palese a colui che ci parla nei luoghi deserti della nostra esistenza, e ci dice: Non temete, io vi accetto.