lettera pastorale del vescovo 2^ parte
Servire la vita
dove la vita accade
(2^ parte)
Nel momento in cui la violenza dell’uragano si è scatenata e le misure per il contenimento sono diventate stringenti, la comunità cristiana è stata travolta: in un attimo è sparita. Chiese aperte, ma vuote; celebrazioni e sacramenti scomparsi; oratori chiusi; prossimità a famiglie, malati, poveri, impossibile.
L’uragano non ha demolito chiese, ma ci ha rubato il “corpo”: noi siamo la religione del “corpo”. Il Dio che ci meraviglia e scandalizza ha fatto del corpo il sigillo della sua umanità. Non più segni, non più incontri, non più luoghi comuni, non più i gesti di una prossimità personale, che caratterizza la testimonianza dell’amore e della solidarietà. Questo sconquasso non è durato molto, ma in molti se ne sono accorti: chi con un di più di dolore e chi con giudizio implacabile su una Chiesa inutile.
Poi, nei modi più diversi, siamo usciti di nuovo: non si è trattato di una riscossa, una riconquista del terreno perduto, di una volontà di esserci per non esser tagliati fuori. Non si è trattato di un esercizio di fantasia, di creatività e neppure di un’iniezione di adrenalina, capace di rimettere in moto il “corpo”. Non accampo alcuna pretesa, ma ritengo d’aver avvertito il soffio dello Spirito, dello Spirito Santo.
In un momento in cui ciò di cui avevamo maggiormente bisogno era l’ossigeno e l’aria per coloro che stavano soffocando, il vento dello Spirito ha percorso le comunità e i cuori di fedeli e di pastori.
Lo Spirito è vitale e dà vita: così è successo nelle nostre comunità. Impedite, private del “corpo”, si sono lasciate pervadere dallo Spirito.
Ero partito, nei primi tempi della pandemia, leggendo i giorni della comunità cristiana nel segno dell’esilio dell’antico Israele: senza più casa, tempio, altare, sacerdozio. Poi col crescere del turbine, del suo passaggio devastante, del dolore e della morte, mi sono reso conto che stavamo veramente vivendo quella Pasqua, che non potevamo celebrare come di consuetudine. Il rito era ridotto all’essenziale ma la vita era contrassegnata, come non mai, in ciascuno e in tutti dal mistero della Pasqua: morte e vita in duello, come dice l’antica preghiera.
E finalmente il soffio dello Spirito, il soffio del Risorto. Non mi soffermo sulle incalcolabili proposte di ascolto, preghiera e carità, ma sul fatto che le donne e gli uomini della nostra terra hanno avvertito di essere comunità, che qualcuno c’era, che distanziati eravamo prossimi l’uno all’altro.
Non dimenticherò la testimonianza di un’anziana signora che ha tenuto a dirmi e scrivermi: nella vicinanza della mia parrocchia e dei miei sacerdoti ho riconosciuto la vicinanza di Dio.
E’ il Soffio che ho continuato ad avvertire nelle condivisioni che le piattaforme digitali ci hanno consentito: le “finestrelle” alle quali ci siamo affacciati nei mesi scorsi, inizialmente timorosi, e poi sempre più coinvolti.
Non siamo stati “alla finestra”, ma, attraverso la finestra siamo stati in ascolto gli uni degli altri. Gli incontri non sono stati un proforma: quasi delle “passerelle” in cui ognuno appariva per qualche istante. Ciò che stavamo vivendo e la fede con la quale stavamo vivendo il dramma di tutti, ci univa e apriva il cuore e non solo la mente ad una comprensione spirituale, perché ispirata dello Spirito di Dio. Così è stato dei dialoghi con i sacerdoti, con i religiosi, con i laici. Se, avvertiamo la necessità dell’incontro non mediato da uno schermo, dobbiamo riconoscere che la condivisione sperimentata è stata autentica e percorsa dallo Spirito.
Il frutto di questo modo di stare insieme, del discernimento inevitabile, è stata l’emersione di un convincimento avvertito non solo come vero, ma come necessario e prospettico.
Il Signore ci ha chiesto e ci chiede di servire la vita dove la vita accade, come ha fatto Lui.
E’ il Soffio dello Spirito che il mondo intero ha riconosciuto nelle parole e nei gesti di Papa Francesco, che ha rappresentato agli occhi di tutti l’inesauribile speranza che scaturisce dal Vangelo e dal Signore Crocifisso e Risorto. Desidero consegnarvi alcune della parole che sono risuonate in quei giorni e che mi hanno confermato nell’intuizione spirituale, evangelica e pastorale di servire la vita, dove la vita accade.
Nessuno potrà dimenticare l’icona del Papa sotto la pioggia nella piazza deserta, ma non vogliamo dimenticare neppure le sue parole, ispirate al Vangelo della tempesta sul lago e al gesto di Gesù. Ad un certo punto, il Papa ha parlato del “giudizio”: “E’ il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è”. E’ il tempo dunque delle scelte, è il tempo della conversione.
Ha parlato, come l’Apostolo, di armi: la preghiera e la carità. La preghiera, non solo sperimentata abbondantemente in quei giorni, ma soprattutto sperimentata come espressione di una consegna, di un affidamento. La carità, riconosciuta non solo nei gesti eroici, ma nella dedizione di coloro che sono rimasti e rimangono “invisibili”.
Vescovo Francesco (2 - continua)