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UNITÀ' PASTORALE DESTRA SECCHIA

17^ DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Col brano odierno si conclude il capitolo 13 del vangelo secondo Matteo, tutto dedicato alle parabole sul regno di Dio. Due domeniche fa abbiamo letto la parabola del seminatore: parte della sua semente va persa sul sentiero, sulle rocce o tra i cespugli; solo una porzione cade su buon terreno, dove dà frutti abbondanti. Domenica scorsa, la parabola della zizzania: anche il buon terreno dove il grano può crescere è infestato da erbacce; solo alla mietitura le si separerà dal grano e le si brucerà. Oggi, lo stesso concetto è ribadito dalla breve parabola della pesca: soltanto quando tira a riva la rete, il pescatore raccoglie in canestri i pesci buoni e getta via quelli cattivi (cioè i molluschi e i crostacei, che gli ebrei consideravano non commestibili). Si ribadisce dunque qui il concetto che gli uomini buoni e cattivi temporaneamente, cioè in questo mondo, vivono insieme, e soltanto alla fine il giudizio rivelerà a quale gruppo ciascuno ha voluto appartenere.

Ma questo capitolo del vangelo non è il solo che parli di questo argomento: con questi e altri brevi racconti, le parabole appunto, Gesù continua un discorso che permea tutto il suo insegnamento. Si può dire che quello del regno di Dio (talora designato come regno dei cieli) è un tema ricorrente, dagli inizi alla fine: il vangelo riassume gli esordi della sua vita pubblica, riferendo che "Gesù cominciò a predicare e a dire: Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino" (Matteo 4,17). E al termine della sua vita pubblica, quando è già in croce, egli esaudisce la preghiera del cosiddetto "buon ladrone" che gli ha chiesto "Ricordati di me quando entrerai nel tuo regno" (Luca 23,39-43). Di mezzo, innumerevoli sono i riferimenti a questo tema, e tra essi si pongono appunto le parabole, intese a far intuire che cosa sia il regno dei cieli, o regno di Dio.

Intuire, perché spiegarlo non è facile, trattandosi di una realtà che va oltre la comune esperienza. Il regno di Dio infatti non è in alcun modo assimilabile ai regni o alle repubbliche di questo mondo: non ha un territorio, non ha un parlamento, non riscuote tasse, non ha un esercito né tribunali. La parabola del seminatore dice che la possibilità di appartenervi è data a tutti, pur se non tutti la accolgono; la zizzania e i pesci da buttare ricordano che al momento buoni e cattivi vi convivono. Due brevi parabole di domenica scorsa accennano al suo mistero, dato da una realtà agli esordi piccolissima ma dotata di insospettate potenzialità: un pizzico di lievito basta a far fermentare una massa di farina; dal più piccolo dei semi, il quasi invisibile granello di senapa, si sviluppa una pianta tanto grande da poter accogliere nidi di uccelli. Altre due di oggi dicono la preziosità del Regno, paragonandolo a un tesoro nascosto o a una perla di incomparabile valore, che chi è accorto fa di tutto per accaparrarsi.

Tante parabole, tanti accenni: ma che cos'è dunque il regno di Dio, e chi ne fa parte? Raccogliendo queste e altre indicazioni dei vangeli, si può rispondere così: il regno è la signoria di Dio sul creato, e vi appartiene chi la riconosce (nei fatti, cioè adottando uno stile di vita adeguato). In questo mondo, il regno di Dio è una realtà in crescita, non ancora compiuta (Gesù insegna a chiedere al Padre "Venga il tuo regno"), ma riconoscerla è come aver trovato un tesoro, una perla preziosissima; è la disponibilità a farsi buon terreno, che dà frutti copiosi.

Questi esempi portano in sé un preciso orientamento per la vita di ogni singolo uomo: invitano a non essere orgogliosi o testardi al punto da ritenersi autosufficienti, né distratti o superficiali tanto da non distinguere i veri dai falsi tesori. Nulla vale di più che riconoscere la signoria di Dio, cioè stare dalla sua parte, fare la sua volontà, accogliere e ricambiare la sua amicizia. E se nulla vale di più, nulla dobbiamo cercare, nulla ci può bastare che valga di meno.

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prima superiore

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terza media

16^ DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Questa parabola mi ha cambiato il volto di Dio. La interpretava con parole luminose padre Giovanni Vannucci, uno dei massimi mistici del '900. Diceva: il nostro cuore è un pugno di terra, seminato di buon seme e assediato da erbacce; una zolla di terra dove intrecciano le loro radici, talvolta inestricabili, il bene e il male.

«Vuoi che andiamo a togliere la zizzania?» domandano i servi al padrone. La risposta è perentoria: «No, perché rischiate di strapparmi spighe di buon grano!». Un conflitto di sguardi: quello dei servi si posa sul male, quello del padrone sul bene. Il seminatore infaticabile ripete: guarda al buon grano di domani, non alla zizzania. La gramigna è secondaria, viene dopo, vale di meno.

Tu pensa al buon seme. Davanti a Dio una spiga di buon grano vale più di tutta la zizzania del campo, il bene è più importante del male, la luce conta più del buio.

La morale del Vangelo infatti non è quella della perfezione, l'ideale assoluto e senza macchia, ma quella del cammino, della fecondità, dell'avvio, di grappoli che maturano tenacemente nel sole, di spighe che dolcemente si gonfiano di vita.

La parabola ci invita a liberarci dai falsi esami di coscienza negativi, dallo stilare il solito lungo elenco di ombre e di fragilità, che poi è sempre lo stesso. La nostra coscienza chiara, illuminata e sincera deve scoprire prima di tutto ciò che di vitale, bello, buono, promettente, la mano viva di Dio ha seminato in noi: il nostro giardino, l'Eden affidato alla nostra cura.

Mettiamoci sulla strada con cui Dio agisce: per vincere la notte accende il mattino; per far fiorire la steppa sterile getta infiniti semi di vita; per sollevare la farina pesante e immobile mette un pizzico di lievito. Dio avvia la primavera del cosmo, a noi spetta diventare l'estate profumata di messi. Io non sono i miei difetti o le mie debolezze, ma le mie maturazioni. Non sono creato a immagine del Nemico e della sua notte, ma a immagine del Creatore e del suo giorno.

L'attività religiosa, solare, positiva, vitale che dobbiamo avere verso noi stessi consiste nel

non preoccupiamoci prima di tutto delle erbacce o dei difetti, ma nel venerare tutte le forze di bontà, di generosità, di accoglienza, di bellezza e di tenerezza che Dio ci consegna. Facciamo che queste erompano in tutta la loro forza, in tutta la loro potenza e vedremo le tenebre scomparire.

Custodisci e coltiva con ogni cura i talenti, i doni, i semi di vita e la zizzania avrà sempre meno terreno. Preoccupati del buon seme, ama la vita, proteggi ogni germoglio, sii indulgente con tutte le creature. E sii indulgente anche con te stesso. E tutto il tuo essere fiorirà nella luce.

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animatori

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animatori

campo 2

seconda media

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quinta elementare e prima media

15^ DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Egli parlò loro di molte cose con parabole. Magia delle parabole: un linguaggio che contiene di più di quel che dice. Un racconto minimo, che funziona come un carburante: lo leggi e accende idee, suscita emozioni, avvia un viaggio tutto personale.

Gesù amava il lago, i campi di grano, le distese di spighe e di papaveri, i passeri in volo. Osservava la vita (le piccole cose non sono vuote, sono racconto di Dio) e nascevano parabole

Oggi Gesù osserva un seminatore e intuisce qualcosa di Dio. Il seminatore uscì a seminare. Non 'un', ma 'il' seminatore, Colui che con il seminare si identifica, perché altro non fa' che immettere nel cuore e nel cosmo germi di vita. Uno dei più bei nomi di Dio: non il mietitore che fa i conti con le nostre povere messi, ma il seminatore, il Dio degli inizi, che dà avvio, che è la primavera del mondo, fontana di vita.

Abbiamo tutti negli occhi l'immagine di un tempo antico: un uomo con una sacca al collo che percorre un campo, con un gesto largo della mano, sapiente e solenne, profezia di pane e di fame saziata. Ma la parabola collima solo fin qui. Il seguito è spiazzante: il seminatore lancia manciate generose anche sulla strada e sui rovi. Non è distratto o maldestro, è invece uno che spera anche nei sassi, un prodigo inguaribile, imprudente e fiducioso. Un sognatore che vede vita e futuro ovunque, pieno di fiducia nella forza del seme e in quel pugno di terra e rovi che sono io.

Che parla addirittura di un frutto uguale al cento per uno, cosa inesistente, irrealistica: nessun chicco di frumento si moltiplica per cento. Un'iperbole che dice la speranza altissima e amorosa di Dio in noi.

Tuttavia, per quanto il seme sia buono, se non trova acqua e sole, il germoglio morirà presto. Il problema è il terreno buono. Allora io voglio farmi terra buona, terra madre, culla accogliente per il piccolo germoglio. Come una madre, che sa quanto tenace e desideroso di vivere sia il seme che porta in grembo, ma anche quanto fragile, vulnerabile e bisognoso di cure, dipendente quasi in tutto da lei.

Essere madri della parola di Dio, madri di ogni parola d'amore. Accoglierle dentro sé con tenerezza, custodirle e difenderle con energia, allevarle con sapienza.

Ognuno di noi è una zolla di terra, ognuno è anche un seminatore. Ogni parola, ogni gesto che esce da me, se ne va per il mondo e produce frutto. Che cosa vorrei produrre? Tristezza o germogli di sorrisi? Paura, scoraggiamento o forza di vivere?

Se noi avessimo occhi per guardare la vita, se avessimo la profondità degli occhi di Gesù, allora anche noi comporremmo parabole, parleremmo di Dio e dell'uomo con parabole, con poesia e speranza, proprio come faceva Gesù.

14^ DOMENICA TEMPO ORDINARIO

E' un periodo di insuccessi per il ministero di Gesù: contestato dall'istituzione religiosa, rifiutato dalle città attorno al lago, da una generazione che non esita a definire «di bambini» (Mt 11,16), Gesù ha improvvisamente come un sussulto di stupore, gli si apre davanti uno squarcio inatteso, un capovolgimento: Padre, ho capito e ti rendo lode. Attorno a Gesù il posto sembrava rimasto vuoto, si erano allontanati i grandi, i sapienti, gli scribi, i sacerdoti ed ecco che il posto lo riempiono i piccoli: poveri, malati, vedove, bambini, i preferiti da Dio. Ti ringrazio, Padre, perché hai parlato a loro, e loro ti hanno capito. I piccoli sono le colonne segrete della storia; i poveri, e non i potenti, sono le colonne nascoste del mondo. Gesù vede e capisce la logica di Dio, la sua tenerezza comincia dagli ultimi della fila, dai bastonati della vita. Non è difficile Dio: sta al fianco dei piccoli, porta quel pane d'amore di cui ha bisogno ogni cuore stanco... E ogni cuore è stanco. Di un segno d'affetto ha estremo bisogno l'animo umano: è la vera lingua universale della Pentecoste, che ogni persona dal cuore puro capisce, in ogni epoca, su tutta la terra. Gesù che si stupisce di Dio; mi incanta, è bellissima questa meraviglia che lo invade e lo senti felice, mentre le sue parole passano dal lamento alla danza. Ma poi non basta, Gesù fa un ulteriore passo avanti. Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro, non un nuovo sistema di pensiero, non una morale migliore, ma il ristoro, il conforto del vivere. Anche per me e per te, nominare Cristo deve equivalere a confortare la vita. Le nostre prediche, i tanti incontri devono diventare racconti di speranza e di libertà. Altrimenti sono parole e gesti che non vengono da lui, sono la tomba della domanda dell'uomo e della risposta di Dio. Invece là dove le domande dell'uomo e la bellezza del Dio di Gesù si incontrano, lì esplode la vita. Imparate da me... Andare da Gesù è andare a scuola di vita. Imparate dal mio cuore, dal mio modo di amare, delicato e indomito. Il maestro è il cuore. Se ascolti per un minuto il cuore, scrive il mistico Rumi, farai lezione ai sapienti e agli intelligenti! Il mio giogo è dolce e il mio peso è leggero: dolce musica, buona notizia. Il giogo, nella Bibbia, indica la Legge. Ora la legge di Gesù è l'amore. Prendete su di voi l'amore, che è un re leggero, un tiranno amabile, che non colpisce mai ciò che è al cuore dell'uomo, non vieta mai ciò che all'uomo dà gioia e vita, ma è instancabile nel generare, curare, rimettere in cammino. Cos'è l'amore? È ossigeno. Che se la vita si è fermata, la attende, la impregna di sé e le ridona respiro

13^ DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Un Dio che pretende di essere amato più di padre e madre, più di figli e fratelli, che sembra andare contro le leggi del cuore. Ma la fede per essere autentica deve conservare un nucleo sovversivo e scandaloso, il «morso del più» (Luigi Ciotti), un andare controcorrente e oltre rispetto alla logica umana. Non è degno di me. Per tre volte rimbalza dalla pagina questa affermazione dura del Vangelo. Ma chi è degno del Signore? Nessuno, perché il suo è amore incondizionato, amore che anticipa, senza clausole. Un amore così non si merita, si accoglie. Chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà! Perdere la vita per causa mia non significa affrontare il martirio. Una vita si perde come si spende un tesoro: investendola, spendendola per una causa grande. Il vero dramma per ogni persona umana è non avere niente, non avere nessuno per cui valga la pena mettere in gioco o spendere la propria vita. Chi avrà perduto, troverà. Noi possediamo veramente solo ciò che abbiamo donato ad altri, come la donna di Sunem della Prima Lettura, che dona al profeta Eliseo piccole porzioni di vita, piccole cose: un letto, un tavolo, una sedia, una lampada e riceverà in cambio una vita intera, un figlio. E la capacità di amare di più. A noi, forse spaventati dalle esigenze di Cristo, dall'impegno di dare la vita, di avere una causa che valga più di noi stessi, Gesù aggiunge una frase dolcissima: Chi avrà dato anche solo un bicchiere d'acqua fresca, non perderà la sua ricompensa. Il dare tutta la vita o anche solo una piccola cosa, la croce e il bicchiere d'acqua sono i due estremi di uno stesso movimento: dare qualcosa, un po', tutto, perché nel Vangelo il verbo amare si traduce sempre con il verbo dare: Dio ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio. Non c'è amore più grande che dare la vita! Un bicchiere d'acqua, dice Gesù, un gesto così piccolo che anche l'ultimo di noi, anche il più povero può permettersi. E tuttavia un gesto non banale, un gesto vivo, significato da quell'aggettivo che Gesù aggiunge, così evangelico e fragrante: acqua fresca. Acqua fresca deve essere, vale a dire l'acqua buona per la grande calura, l'acqua attenta alla sete dell'altro, procurata con cura, l'acqua migliore che hai, quasi un'acqua affettuosa con dentro l'eco del cuore. Dare la vita, dare un bicchiere d'acqua fresca, ecco la stupenda pedagogia di Cristo. Un bicchiere d'acqua fresca se dato con tutto il cuore ha dentro la Croce. Tutto il Vangelo è nella Croce, ma tutto il Vangelo è anche in un bicchiere d'acqua. Nulla è troppo piccolo per il Signore, perché ogni gesto compiuto con tutto il cuore ci avvicina all'assoluto di Dio. Amare nel Vangelo non equivale ad emozionarsi, a tremare o trepidare per una creatura, ma si traduce sempre con un altro verbo molto semplice, molto concreto, un verbo fattivo, di mani, il verbo dare.

12^ DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Molti ancora ricordano l'invito, quasi gridato, di Giovanni Paolo II nella Messa d'inizio del suo pontificato: "Non abbiate paura!" Tutti allora hanno espresso sorpresa per quell'inatteso esordio, che bastò a dare la misura della vigorosa personalità del nuovo papa: un uomo già provato da durissime esperienze (e altre ancor più dure avrebbe vissuto in seguito), eppure sempre carico di fiducia e coraggio. Ma quelle parole non erano un distillato della sua biografia, non nascevano spontanee sulle labbra di un inguaribile ottimista: in realtà il papa non faceva che ripetere parole di Colui del quale è il vicario in terra. Nel solo brano odierno del vangelo (Matteo 10,26-33), per ben tre volte Gesù invita a non avere paura. L'invito appare più che mai di attualità. Senza ricercare quali fossero le ragioni sottese nel grido del papa, possiamo vedere come rispetto ad allora, quarant'anni fa, la cronaca porti nuove ragioni che alimentano il timore. Le prospettive di uno scontro di civiltà, i gravissimi attentati (sinora in altri paesi, ma così vicini che è quasi come se fossero avvenuti tra noi), ingiustizie d'ogni sorta, il degrado dell'ambiente, l'arrivo di tanti stranieri, l'insicurezza del domani, l'inefficienza dei governanti, e chi più ne ha più ne metta, generano un diffuso disagio quando non paura. Probabilmente un'analisi accurata manifesterebbe l'infondatezza di tanti timori, almeno in parte generati da un accumulo di informazioni; in passato i problemi erano differenti ma non meno numerosi o meno gravi: però non li si conosceva quanto oggi, e a differenza di oggi non si presentavano tutti insieme. In ogni caso, tuttavia, il lamento da solo è sterile; un atteggiamento responsabile di fronte ai problemi comporta l'impegno a fare quanto ci è possibile per risolverli. Come, il papa di quarant'anni fa lo disse subito dopo la sua vibrante esortazione a non avere paura, quando con altrettanta forza aggiunse: "Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo!" Egli era convinto, ed è difficile dargli torto, che se gli uomini, tutti, mettessero in pratica gli esempi e gli insegnamenti di Cristo, i problemi per cui si inquietano sparirebbero. Tra i rischi e le buie prospettive per cui gli uomini si inquietano, la maggior parte di loro non include il pericolo di cui parla il vangelo di oggi, l'unico vero pericolo di una vita che, piaccia o no, è destinata a finire. "Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l'anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l'anima e il corpo nella Geenna", cioè all'inferno, dice il vangelo. Ora, parlare di inferno e di colui che ha il potere di farvi perire l'anima e il corpo, muove qualcuno a sorrisini di compatimento: cose d'altri tempi, cose per gli ingenui, pensa. E però, premesso che nessuno finirà all'inferno per disgrazia, come senza colpa si può perire in un incidente stradale, l'avvertimento evangelico è basilare per chi sa che esiste una vita oltre questa, e che essa sarà come in questa ce la saremo preparata. Chi ritenesse che nell'ottica della fede la vita presente non conta, perché vale solo quella eterna; chi pensasse di disinteressarsi del mondo, sbaglierebbe di grosso. Il futuro dipende dal presente, da come si vive oggi: di qui l'impegno dei cristiani a cambiare questo mondo, a fare il possibile perché diventi più giusto, più sicuro, più solidale. Semmai, la prospettiva della vita eterna serve da guida nell'operare adesso, finché dura la vita presente. Qualche giorno fa è ricorsa la festa di San Luigi Gonzaga, giovane d'anni ma maturo come pochi. Riferisce chi gli è vissuto accanto che egli valutava impegni e decisioni non col metro dell'interesse personale o dell'esito immediato, ma pensando alle conseguenze. Allo scopo aveva adottato un semplice criterio: "Quid ad aeternitatem?" si domandava; "che vale questo per l'eternità?"

CORPUS DOMINI

Il vangelo di oggi (Giovanni 6,51-58) ci porta a un discorso pronunciato da Gesù nella sinagoga di Cafarnao, dopo avere moltiplicato pani e pesci per nutrire la folla che lo aveva seguito. Il discorso era come la spiegazione di quel cclamoroso miracolo, condensata nelle parole: "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna": affermazione, questa, che ha suscitato nei presenti sorpresa e sconcerto. "Come può costui darci la sua carne da mangiare?" si chiedevano. La risposta è venuta in seguito, nell'ultima cena, quando egli prese il pane e il vino e ne distribuì ai discepoli dicendo: "Prendete e mangiate, questo è il mio corpo sacrificato per voi... Prendete e bevete, questo è il mio sangue versato per voi".
Parole basilari, se da duemila anni ci sono uomini, sparsi in tutto il mondo, che ogni giorno, celebrando la Messa, le ripetono, per rendere attuali quelle pronunciate da Gesù durante la sua ultima cena, e beneficiarne insieme con innumerevoli fedeli. Ogni giorno, col rischio perciò di non badarci più quanto meritano: e allora, per dissipare le caligini di cui ama vestirsi l'abitudine, ecco l'odierna solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo, il Corpus Domini, come ancora si usa chiamarla.
Quelle parole portano al cuore della fede. Esprimono tutta la considerazione, tutto l'amore di Dio per l'uomo, e invitano a intendere la fede non come l'asettica accettazione di una serie di verità, ma come un rapporto vitale, una relazione di intimità con Lui. Mangiare e bere il Signore: i termini sono concreti, quasi crudi; ma esprimono da un lato quanto l'uomo abbia bisogno di Dio, e dall'altro con quanto amore Dio sia proteso a soddisfare ogni autentica fame dell'uomo. Gesù era stato preannunciato come l'Emanuele, cioè "Dio-con-noi"; l'Eucaristia ne è il più esplicito adempimento: Dio è con noi al punto da farsi tutt'uno con noi.
Ovviamente questo cambia la vita alla radice. L'uomo non è più solo, con i suoi fantasmi e le sue paure, in bilico tra i suoi tormentosi ricordi e le sue incerte prospettive. Si può dire anzi che nell'Eucaristia egli trova il senso del proprio presente, armonicamente collegato sia al passato sia al futuro. C'è chi guarda al tempo trascorso, nell'arco della propria vita come nella storia in generale, con sterile nostalgia: a fronte dell'oggi, il passato gli sembra da rimpiangere; ne ignora, o ne dimentica, le brutture e i fallimenti, e lo vede come la mitica età dell'oro, quando tutto era bello, tutto andava bene. C'è chi guarda al presente come la sola fase disponibile della vita, e vi si aggrappa quasi con furia, cercando di spremerne tutto quanto gli pare appagante, non importa a che prezzo. C'è chi guarda al futuro come lo spazio entusiasmante di un inesauribile progresso, o viceversa con l'angoscia, per sé, per i propri figli e nipoti, di vedervi i mali presenti ingigantiti sino a soffocare quanti li dovranno affrontare.
Tra i tanti benefici, l'Eucaristia porta chi vi si affida a un corretto rapporto col tempo. Il passato vi è richiamato in quanto di meglio vi si è compiuto: Dio ha tanto amato gli uomini, da mandare il suo Figlio a riscattarli dalla loro misera condizione. Ma non è un passato da rimpiangere come ormai concluso: esso infatti si riversa nel presente; quell'amore è attuale, vivo e operante oggi. Non solo: l'amore di Dio è la più solida garanzia per il futuro, cui si può tendere senza paura, ma anzi con speranza.
Passato, presente e futuro in rapporto all'Eucaristia sono richiamati anche in un'antifona della festa di oggi, composta da quel genio che fu San Tommaso d'Aquino. Con l'acume del teologo e con straordinaria forza di sintesi, egli ha condensato il dono divino in questi termini: "Mistero della Cena! Ci nutriamo di Cristo, si fa memoria della sua passione, l'anima è ricolma di grazia, e ci è donato il pegno della gloria", cioè della vita futura con lui.
Non si poteva dire meglio.

SANTISSIMA TRINITA'

E' la domenica della Santissima Trinità. La fede cristiana è assolutamente, rigorosamente monoteista, ma si distingue dagli altri monoteismi (l'ebraico e l'islamico) perché, sulla scorta di quanto le è stato rivelato, professa che l'Unico Dio è una Trinità di persone. Sono il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, cioè le persone delle parole che accompagnano il segno di croce, quelle di cui si parla nel Credo, quelle richiamate in ogni preghiera liturgica. Uno e tre: un bel mistero; anzi, il mistero dei misteri, dal quale tutti gli altri derivano. Un mistero così estraneo all'umano modo di ragionare, così arduo per le umane capacità di comprensione, che a nessuno poteva balenare nella mente; all'idea di un unico Dio, un buon ragionatore poteva giungere anche da solo, ma alla Trinità, no: nulla ne sapremmo, se appunto non fosse stata rivelata.
Rivelato, ma pur sempre mistero; tante menti superiori hanno cercato di indagarlo, ma con esiti limitatissimi. Più che mai in questo caso le parole umane, di fronte all'ineffabile, si rivelano inadeguate; sono soltanto timidi balbettii che, lo si intuisce, si limitano a sfiorare una realtà di natura sua non contraria ma eccedente le nostre capacità di comprensione. Lo fa capire un noto aneddoto relativo ad una delle più acute menti mai esistite, Sant'Agostino. Un giorno, si narra, egli passeggiava avanti e indietro sulla spiaggia, immerso nell'arduo tentativo di spiegarsi appunto la Trinità, quando notò un fanciullo che aveva scavato una buca nella sabbia e con una ciotola vi portava dentro acqua del mare. "Che fai?" gli chiese. "Metto il mare in questa buca", fu la risposta. E Agostino, indulgente: "Via, come puoi riuscirci? Non vedi com'è grande il mare? Come potrebbe stare tutto in uno spazio così piccolo?" Ma ecco la risposta: "E tu, come pretendi di far stare l'immensità di Dio dentro la tua testa?"
Pur se inspiegabile nella sua dimensione profonda, tuttavia, qualcosa del mistero si può capire, ad esempio considerando le tre Persone all'opera nei confronti degli uomini. Non a caso questa festa si colloca nella domenica seguente la Pentecoste, cioè dopo concluso il tempo pasquale nel quale si è celebrata la salvezza dell'umanità, compiuta con la morte e risurrezione di Gesù. La Scrittura rivela che in realtà la redenzione non è opera del solo Gesù, ma appunto della divina Trinità. Dio Padre ha voluto salvare gli uomini, offrendo loro la possibilità di riallacciare i rapporti con lui, interrotti dal peccato; per questo ha mandato nel mondo il suo Figlio, il quale allo scopo ha assunto la natura umana, è morto ed è risorto. L'ha fatto una volta per sempre, duemila anni fa: rimane il problema di come il suo operato, lontano nel tempo e nello spazio, possa tornare a beneficio dei singoli uomini, di ogni tempo e paese. A ciò provvede la terza Persona, lo Spirito Santo, attivo nel battesimo, nella cresima e in tutti gli altri sacramenti, che sono i mezzi predisposti da Gesù e affidati alla sua Chiesa, proprio per offrire a tutti i benefici di quanto egli ha compiuto.
La volontà del Padre, adempiuta dal Figlio, continuata dallo Spirito: l'unico Dio in tre Persone, legate dall'unità degli intenti, in perfetta sintonia. E pur se il mistero permane, troppo grande perché ci sia possibile esplorarlo fino in fondo, il fatto che ci sia stato rivelato è un segno della considerazione in cui Dio tiene quanti ha creato a sua immagine e somiglianza. Rivelandoci il segreto della sua vita trinitaria, egli ci ammette nella sua casa, ci fa partecipi della sua intimità: confidando che, consapevoli di tanto onore, accogliamo il dono di poter condividere quella intimità per sempre. E' quanto afferma anche il vangelo di oggi (Giovanni 3,16-18). Dice Gesù a Nicodemo, il notabile ebreo recatosi da lui di notte: "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna".

CAMMINO DELLE NOSTRE PARROCCHIE IN DIOCESI

Il vescovo Marco intende in questi mesi dare nuova freschezza e vitalità alle parrocchie della nostra diocesi. E’ questo allora il momento in cui dobbiamo lasciarci guidare dallo Spirito del Risorto che porta con sé sempre aria nuova e fresca… sicuramente come tutte le potature, portano anche dolore, ma sono necessarie, così anche gli avvenimenti che ci riguardano sono forti, ma non ci devono lasciare cadere le braccia, anzi ci devono rinforzare.
A giudizio del vescovo il primo rinnovamento riguarda i sacerdoti, il loro susseguirsi, non è mancanza di amore nei confronti della parrocchia ma è per un bene maggiore verso gli stessi preti e i fedeli cristiani. Ecco allora che i cambi necessari sono tantissimi. Anche la nostra unità pastorale vedrà alcuni cambiamenti.
Don Nicola lascerà le nostre parrocchie per servire le parrocchie di Guidizzolo, Solferino e Birbesi.
Al suo posto arriverà don Nicola Ballarini (non faremo nemmeno fatica ad imparare un nome nuovo), impareremo a conoscerlo, a volergli bene, è un dono che riceviamo dal Signore attraverso le mani del vescovo; facciamoci vicini da subito, mettiamoci a disposizione, ciascuno come può, per essere strumenti con lui del Vangelo e dell’amore del Signore verso i fratelli.
I sacerdoti che vanno e quelli che vengono sono da amare sempre e comunque, tutti sono importanti e nessuno necessario, ma tutti svolgono il compito di annunciare il Vangelo e ciascuno con le proprie caratteristiche lo fa mettendoci il cuore: è questa la cosa necessaria. Non si vive di ricordi ma il Signore ci invita a guardare avanti senza rimpianti e nostalgie, le relazioni belle, le esperienza significative e i legami di fraternità resteranno sicuramente e serviranno da bagaglio per tutti.
I sacerdoti vanno ma le comunità restano ed è qui il segreto delle nostre parrocchie: i cristiani che le abitano si prendono a cuore tutto della loro comunità dai bambini ai giovani, dalle famiglie agli anziani, da chi sta bene a chi è ammalato… non è solo compito del prete di turno, ma di ciascun cristiano che vuole vivere fino in fondo la sua missione di cristiano nel mondo.
Impariamo questo! Rimbocchiamoci le maniche, non aspettiamo sempre e solo gli altri!
Ci allargheremo come unità pastorale aggiungendo la parrocchia di Quingentole e facendo unità pastorale con Revere e Pieve di Coriano, poi nei prossimi mesi vedremo come impostare il lavoro. Impareremo a conoscere anche don Renato di Revere e Pieve e a collaborare con lui e con i fratelli di quelle comunità… la famiglia che si allarga è sempre un dono grande!
Saluteremo anche don Marco che dalle parrocchie di Quingentole e Pieve andrà a fare il parroco a Castellucchio.
Accompagniamo questi momenti di cambiamento con la preghiera che ci inserisce direttamente nella volontà del Signore che è il bene di tutti. Non vediamo questi momenti con rabbia o rassegnazione ma come tempi di grazia attraverso i quali il Signore dona freschezza e vitalità alla sua chiesa che siamo noi.
Buon cammino!

PENTECOSTE

Solennità di Pentecoste: il dono dello Spirito. "Non vi lascerò orfani" aveva promesso Gesù ai suoi amici, annunciando loro il proprio ritorno al Padre; "vi manderò lo Spirito Santo". E per aiutarli a capire chi fosse, quel misterioso Spirito, lo chiamò Paràclito, termine allora usato per designare un avvocato difensore, un consigliere amico, un sostegno nelle difficoltà.
Quella promessa, le letture di oggi dicono che Gesù l'ha adempiuta due volte. Della prima parla il vangelo (Giovanni 20,19-23): il giorno stesso della risurrezione, manifestandosi agli apostoli, Gesù "alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo", accompagnando il dono con parole che ne esprimono la finalità: "Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete resteranno non rimessi". Lo Spirito è dunque la forza divina che sostiene gli apostoli nella missione loro affidata, il consigliere che li guida nel decidere chi rendere partecipi e chi invece escludere dai benefici della redenzione. Questi compiti assegnati agli apostoli trovano chiarimento in altre pagine della Scrittura; qui si afferma che nell'adempierli essi non sono lasciati a sé stessi, ma possono contare sull'assistenza divina.
L'altro adempimento della promessa di Gesù è narrato nella prima lettura (Atti 2,1-11). Il giorno di Pentecoste (cioè il cinquantesimo dopo la Pasqua, il decimo dopo la visibile ascensione di Gesù al cielo) il dono dello Spirito Santo avviene in forma sensibile: un fragore di tuono, un vento gagliardo, lingue di fuoco che si posano su ciascuno dei presenti li rinsaldano nella percezione sensibile di una realtà spirituale. Avviene come per l'Ascensione: Gesù torna al Padre subito dopo essere risorto; quaranta giorni dopo "si fa vedere" nella sua ascesa, per soccorrere i limiti dell'umanità nel percepire eventi che di natura loro sfuggono ai sensi.
Un particolare è poi importante nel fragoroso dono dello Spirito che oggi celebriamo: le immediate conseguenze da parte di chi l'ha ricevuto. La Pentecoste era già una festa ebraica, e a Gerusalemme convenivano per l'occasione ebrei della diaspora, abitanti in tutti i Paesi del mondo allora conosciuto (l'elenco che ne dà questa pagina della Scrittura è un bel documento di geografia storica). Mentre prima se ne stavano chiusi in casa per paura, non appena irrobustiti dallo Spirito Santo gli apostoli escono e si mettono a parlare, annunciando a tutti "le grandi opere di Dio". Essi cominciano così ad adempiere al mandato ricevuto nel giorno di Pasqua; comincia la missione della Chiesa, destinata a tutti gli uomini di tutti i tempi.
Si collega a questo aspetto la seconda lettura di oggi, tratta dalla prima lettera di Paolo ai cristiani di Corinto (12,3-13), i quali vivono in uno scenario ben diverso: gli eventi di Gerusalemme sono lontani nello spazio e nel tempo, ed i Corinzi provengono non dal mondo ebraico ma da quello pagano. Relativamente allo Spirito Santo l'apostolo richiama loro molte cose, probabilmente di quelle già spiegate loro a voce: ricorda che lo Spirito Santo è Dio; che muove gli uomini a riconoscere in Gesù il redentore; che distribuisce doni diversificati secondo i destinatari perché ciascuno dia frutti diversi per l'utilità comune; che l'hanno ricevuto con il battesimo, e senza distinzioni di razza o di condizione sociale.
Il fatto che l'abbiano ricevuto anche i cristiani di Corinto ci interessa in modo particolare, perché conferma che lo Spirito Santo non è stato dato solo agli apostoli, né solo agli ebrei, ma a tutti quanti professano la fede in Gesù. La Pentecoste dunque ci riguarda; la promessa di Gesù di non lasciare orfani i suoi amici riguarda gli uomini di ogni tempo e paese; anche noi, spiega l'apostolo Paolo, "noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito, per formare un solo corpo". E' il mistico corpo di Cristo; è la sua Chiesa.

NOVENA DI PENTECOSTE

Vieni, Santo Spirito,
manda a noi dal cielo
un raggio della tua luce.

Vieni, padre dei poveri,
vieni, datore dei doni,
vieni, luce dei cuori.

Consolatore perfetto,
ospite dolce dell'anima,
dolcissimo sollievo.

Nella fatica, riposo,
nella calura, riparo,
nel pianto, conforto.

O luce beatissima,
invadi nell'intimo
il cuore dei tuoi fedeli.

Senza la tua forza,
nulla è nell'uomo,
nulla senza colpa.

Lava ciò che è sordido,
bagna ciò che è arido,
sana ciò che sanguina.

Piega ciò che è rigido,
scalda ciò che è gelido,
drizza ciò ch'è sviato.

Dona ai tuoi fedeli
che solo in te confidano
i tuoi santi doni.

Dona virtù e premio,
dona morte santa,
dona gioia eterna.

ASCENSIONE

Festa dell'ascensione di Gesù al cielo. A prima vista, è una di quelle celebrazioni che si capiscono subito, che non richiedono tante spiegazioni: quaranta giorni dopo essere risorto dai morti, Gesù ha concluso la sua presenza terrena salendo al cielo, sotto gli occhi degli undici apostoli. E invece, indagando un po', il fatto riserva qualche sorpresa, cominciando dal protagonista. Il Gesù che gli undici vedono salire non è esattamente lo stesso con il quale avevano condiviso tre anni della loro vita, camminando, mangiando, dormendo con lui. Dopo la risurrezione egli non stava più sempre con loro; si è fatto vedere e toccare varie volte, con loro ha mangiato e parlato, ma arrivando d'improvviso e poco dopo andandosene: dove? Non certo in un rifugio segreto; la sede naturale del Risorto era "alla destra del Padre"; come ha detto la mattina di Pasqua alla Maddalena ("Non trattenermi, non sono ancora salito al Padre mio").
In altre parole, e per dirlo con le nostre povere parole, il giorno stesso della risurrezione egli è andato ad occupare il suo posto definitivo, dove Dio l'ha collocato in segno di approvazione dell'opera da lui compiuta. Le successive manifestazioni avevano lo scopo di rendere certi gli apostoli della sua risurrezione, dopo di che si è fatto vedere a salire al cielo, dove convenzionalmente gli uomini collocano Dio, per renderli consapevoli che da quel momento non l'avrebbero visto più.
Dunque l'Ascensione, cioè il ritorno di Gesù al Padre, è avvenuta subito dopo la Risurrezione; quella che oggi si celebra ne è soltanto la manifestazione visibile, avvenuta quaranta giorni dopo sul monte degli Ulivi. E come a ribadire la sua definitività, in quella circostanza egli ha assegnato agli apostoli il compito per cui li aveva scelti: "Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo".
Queste parole delineano il senso e la missione della Chiesa: continuare, sino alla fine del mondo, l'opera di Gesù, o meglio offrire a tutti gli uomini, di ogni tempo e paese, la possibilità di beneficiare di quello che egli ha fatto per loro. Come? Ricevendo il battesimo e osservando i suoi precetti. E' importante non perdere di vista l'essenziale: radice dello sviluppo della Chiesa, base delle sue ramificazioni, delle sue tante istituzioni, di duemila anni di impegno, al di là degli umani errori che vi si sono commessi e vi si commetteranno, sta questo mandato del suo Fondatore: e tutto nella Chiesa ha senso e valore se si riconduce ad esso, se ne è una conseguenza; il resto, come vi è subentrato così potrà cadere. Un fatto è certo: la Chiesa, vale a dire l'insieme dei battezzati, è costituita da uomini, limitati e fragili uomini, ma si regge e cresce perché Lui l'ha voluta e la sostiene. Sino alla fine del mondo.
Il passo di oggi conclude il vangelo secondo Matteo (28,16-20), l'unico a terminare il suo scritto lasciando direttamente a Gesù l'ultima parola. E' una parola basilare per la Chiesa, che sa di poter contare sulla sua continua assistenza. Ed è una parola confortante per i singoli cristiani. In una società come l'attuale, così rumorosa e affollata, non ci sono mai state tante "famiglie" costituite da una sola persona, mai si è affacciato così insistente lo spettro della solitudine, anche, e forse soprattutto, per chi vive in una grande città ("in quel deserto che chiaman Parigi", cantava già la Traviata). Qualcuno pensa che l'angoscia della solitudine sia addirittura costitutiva dell'uomo ("Ognuno sta solo sul cuor della terra", secondo Quasimodo). Ma a fronte di simili cupezze i cristiani sanno di poter poggiare su un'altra parola; sanno, qualunque cosa succeda, di non essere mai soli: "Io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo".

6^ DOMENICA DI PASQUA

La seconda lettura di oggi (Prima lettera di Pietro 3,15-18) si apre con una bella espressione: "Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi". E' un'espressione bella, ma impegnativa: presuppone un'adesione lucida, ragionata e convinta alla fede.
E' quello di cui parla anche il vangelo odierno (Giovanni 14,15-21), tratto, come quello di domenica scorsa, dai discorsi di Gesù durante l'ultima cena. Il brano si apre con un perentorio richiamo: "Se mi amate, osserverete i miei comandamenti". I comandamenti cui qui allude non sono tanto i dieci del ben noto elenco, conosciuti dal popolo d'Israele già da prima di lui; sono piuttosto quelli - che non smentiscono i dieci ma si collocano più su - dati da lui, con l'insegnamento e l'esempio; sono i comandamenti di cui lui stesso, in un'altra occasione, ha formulato la sintesi onnicomprensiva: "Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutte le forze, e amerai il prossimo tuo come te stesso".
Queste parole delineano il cuore di tutta la normativa cristiana; sono le due facce dell'unico precetto cui i cristiani sono tenuti, il precetto dell'amore, di cui i dieci comandamenti e tutte le altre regole di vita non sono se non specificazioni, applicazioni, esempi. Se amo Dio, certo non considero niente e nessuno piùimportante di lui, non lo bestemmio, gli rendo culto almeno con la messa festiva; se amo il prossimo, onoro il padre e la madre, non uccido nessuno, non commetto adulterio, non rubo, non danneggio altri dicendo falsità, e così via. Evitare il male è la misura minima dell'amore; il passo seguente sta nel fare il bene, tutto il bene possibile: come risposta al bene sommo che Dio per primo, mediante il suo Figlio, ha fatto e continua a fare a noi.
L'amore di cui parla Gesù non sta dunque in romantiche dichiarazioni, in belle parole, ma nei fatti. Ho sentito più volte dire frasi del tipo: "A messa no, non vado: c'è troppo chiasso, le chitarre, i bambini che frignano... Preferisco andare in chiesa quando non c'è nessuno, così mi concentro meglio". Ho visto alcuni commuoversi sino alle lacrime, guardando il film di Mel Gibson sulla Passione. C'è chi non è contento se non si è procurato, la domenica delle Palme, un ramo di ulivo benedetto; c'è chi fa collezione di santini, o tiene nel portafogli un'immagine di Sant'Antonio o di Padre Pio: e pensa con ciò di essere un buon cristiano. Ma il cristianesimo non è una religione sentimentale, una vaga effusione di sentimenti, mutevoli e infidi come tutti i sentimenti. Si è cristiani per una scelta ragionata, per una decisione che comporta precise conseguenze; l'amore per Colui che si è scelto si sostanzia di precise concretezze: "Osservate i miei comandamenti".
Lui stesso del resto l'aveva ricordato in altra occasione: "Non chi dice 'Signore, Signore' entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che sta nei cieli". E nella preghiera da lui insegnata ha incluso: "Padre nostro... Sia fatta la tua volontà"; una domanda che non posso riferire agli altri, esentando me stesso; è una domanda implicante un proposito e un impegno, se davvero considero Dio come il mio Padre, che mi ha amato per primo.
"Se mi amate, osserverete i miei comandamenti". Nel dire così, Gesù sapeva bene di chiedere un impegno non facile. Per questo subito ha aggiunto: "Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore". Questa parola traduce quella greca che significa anche "avvocato difensore" o "sostegno e consigliere nelle difficoltà". Il Consolatore è lo Spirito Santo, il suo dono ai battezzati e dopo d'allora continuamente elargito mediante i sacramenti. La serietà della fede, la verità dei relativi sentimenti si misura dalla concretezza con cui si attinge a questo pozzo di grazia che Gesù ha messo a disposizione di chi ha scelto di amarlo.

5^ DOMENICA DI PASQUA

Due espressioni di Gesù colpiscono particolarmente, nel vangelo odierno (Giovanni 14,1-12) tratto dai discorsi di Gesù agli apostoli durante l'ultima cena. In quella circostanza, tra l'altro egli ha detto: "Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molti posti... Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. E del luogo dove io vado, voi conoscete la via". Gli disse Tommaso: "Signore, non sappiamo dove vai: come possiamo conoscere la via?" Gli rispose Gesù: "Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me".
La prima espressione che conviene considerare è una consolante promessa: "Vado a prepararvi un posto".
Agli uomini incerti sul senso dei propri giorni, agli uomini delusi da esperienze mortificanti, agli uomini cui vanno stretti i confini di questa vita, ecco un'affascinante prospettiva, la chiara indicazione di una meta. Come un viaggiatore smarritosi durante il cammino non sa più orientarsi e perciò è tentato di sedersi al primo bar, ma ritrova slancio se qualcuno gli indica la strada; come chi bighellona in pantofole e non si decide a muoversi perché non conosce un posto che valga l'impegno del viaggio, subito si organizza se gliene prospettano uno adeguato: così per tutti gli smarriti e gli indolenti è un bello stimolo sapere di avere una meta. E per quanti si sono imbarcati in avventure allo spasimo, quando si accorgono di essere stati avventati ma ritengono di non avere alternative, è un conforto sapere che possono sempre cambiare.
Dunque: per me, come per ciascun altro degli esseri umani passati presenti o futuri, c'è un posto già preparato, col mio nome scritto sopra, sicché non devo temere che qualcuno più svelto o più furbo arrivi a soffiarmelo: o sarò io a occuparlo, o resterà vuoto.
Ma di che posto si tratta? E' un posto invitante, appetibile? E non sarà troppo faticoso arrivarci? Esplicite o implicite, sono le domande di tutti, cui Pietro, nella seconda lettura della Messa odierna (Prima lettera di Pietro 2,4-9) risponde ricordando anzitutto la nostra dignità: "Voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa". Gesù risponde più semplicemente ma con parole ancora più avvincenti: "Vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi". Essere per sempre con lui: esiste forse una prospettiva migliore? E se anche richiede impegno, forse che non lo vale?
L'impegno: quale? In che direzione? Come si raggiunge quel posto preparato per noi? A Tommaso che gli pone le stesse domande, Gesù risponde con la seconda espressione basilare del vangelo di oggi: "Io sono la via, la verità e la vita". Per arrivare a quel posto, per conseguire l'unica meta in grado di dare senso al nostro andare di anno in anno, di giorno in giorno, Cristo è la via: occorre cioè aderire a lui, seguire le sue orme, fidarsi delle sue indicazioni di viaggio. Perché lui è l'unico a dare sempre quelle giuste; nel frastuono di voci che ci rimbombano dentro e intorno, tra i tanti sedicenti maestri che ci mitragliano di insegnamenti dagli schermi televisivi o dalla carta stampata, occorre distinguere la "sua" voce, perché Cristo è non una ma "la" verità.
E di fronte agli sforzi immani della scienza che a questa vita sa dare soltanto qualche giorno in più, occorre ricordarlo sempre: lui è l'unico capace di abbattere la barriera della sua conclusione terrena; Cristo è la vita, quella vera, totale, senza fine. E la vita che è lui, nella sua incommensurabile bontà egli intende comunicarla a chi decide di accoglierla, seguendo le sue orme. "Vado a prepararvi un posto, perché dove sono io siate anche voi".

4^ DOMENICA DI PASQUA

Preti e vescovi, cioè i pastori del popolo di Dio, costituiscono un tema delle letture di oggi: e non certo per esaltarli. L'apostolo Pietro, in un passo della sua prima lettera (2,20-25), richiama la passione di Gesù, per spiegare che "dalle sue piaghe siete stati guariti. Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime". Gesù, dunque, come pastore delle anime: e non era una novità, perché lui stesso si era dichiarato tale, suscitando meraviglia, se non scandalo. Ad ascoltatori che ben conoscevano le scritture (ad esempio il profeta Ezechiele, il quale aveva proclamato che pastore del popolo d'Israele era Dio) e pregavano ad esempio con il Salmo 22 ("Il Signore è il mio pastore..."), presentandosi come il pastore delle anime Gesù dichiarava di essere Dio, e insieme esprimeva il suo desiderio di guidare il gregge ai buoni pascoli.

La Pasqua appena celebrata ha ricordato sino a che punto egli tenesse ad essere il pastore: non a chiacchiere, non con belle promesse, ma addirittura con il dono della propria vita. Inoltre egli ha provveduto anche a quanti nei secoli avrebbero accolto il suo dono, istituendo la Chiesa, che è il suo gregge con i relativi pastori, appunto i vescovi e i preti.


 Nel vangelo di oggi (Giovanni 10,1-10) egli parla appunto dei pastori della sua Chiesa, e prospetta la possibilità che non tutti lo siano con la dedizione di cui egli è il modello. Sviluppando la metafora del gregge, afferma: "Io sono la porta delle pecore", cioè dell'ovile, e aggiunge: "Chi vi entra per la porta", cioè approvato da me, in sintonia con me, "è pastore delle pecore", mentre chi vi entra "da un'altra parte è un ladro e un brigante, che non viene se non per rubare, uccidere e distruggere".


 Duemila anni di storia stanno a dimostrare quanto fossero fondate queste prospettive. I secoli cristiani traboccano di pastori mirabili, interamente dediti al bene dei fedeli al punto, non raro, di dare per loro la vita: si pensi ai tanti vescovi e preti santi quando non addirittura martiri, e agli ancor più numerosi che, pur con i limiti della loro umanità, si sono spesi senza riserve nell'adempimento della loro missione. Insieme con loro, però, se ne devono registrare altri che hanno inteso il proprio ruolo come un mezzo per affermare sé stessi, fare carriera, accumulare ricchezze, o magari banalmente solo per sbarcare il lunario: pseudo-pastori, tesi non a servire il gregge ma a servirsene, provocando scandali, rifiuti e altri disastri.


Conoscendo la natura umana, è possibile che di tali "ladri e briganti" ce ne siano tuttora e altri in futuro. Gesù lo sapeva bene, l'ha potuto costatare tra gli stessi da lui personalmente scelti: uno l'ha tradito, uno l'ha rinnegato tre volte, e nel momento della prova gli altri se la sono data a gambe; ai piedi della croce, di dodici non ne era rimasto che uno. Eppure, proprio a uomini così ha affidato il suo gregge; per realizzare il suo progetto sull'umanità avrebbe potuto scegliere altri modi, e invece, pur conoscendoli bene, ha voluto aver bisogno degli uomini. Non solo; ha esortato tutti a desiderarne la presenza: "La messe è molta, ma gli operai sono pochi; pregate dunque il padrone della messe, perché mandi operai nella sua messe" (Matteo 9,37-38).


Lo si ricorda in particolare oggi, giornata di preghiera per le vocazioni. I chiamati risponderanno di sì, o si negheranno? Saranno buoni o cattivi pastori, o magari un mediocre impasto tra i due? Ai fini della fede, poco importa; si crede non nei vescovi o nei preti, ma in Gesù Cristo, che nel mistero della sua sapienza ha scelto di raggiungerci tramite i ministri istituiti nella Chiesa da lui voluta. Essi sono solo strumenti nelle sue mani: se buoni o cattivi, ciascuno di loro ne risponderà a lui. In ogni caso sanno di non essere loro i salvatori; anche i migliori devono ammettere (Luca 17,10): "Siamo semplicemente servi".

3^ domenica di pasqua

La strada da Gerusalemme a Emmaus è metafora delle nostre vite, racconta sogni in cui avevamo tanto investito e che hanno fatto naufragio, bandiere ammainate alle prime delusioni. I due discepoli abbandonano la città di Dio per il loro villaggio, escono dalla grande storia e rientrano nella normalità del quotidiano. Tutto finito, si chiude, si torna a casa. Ed ecco Gesù si avvicinò e camminava con loro. Se ne stanno andando e lui li raggiunge. Con Dio succede questa cosa controcorrente: non accetta che ci arrendiamo, Dio non permette che abbandoniamo il campo. Con Dio c'è sempre un dopo.
Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele, invece... nella loro idea il Messia non poteva morire sconfitto, il Messia doveva trionfare sui nemici. Non hanno capito e lui riprende a spiegare. E interpretando le scritture, mostrava che il Cristo doveva patire. Fa comprendere quella che è da sempre l'essenza del cristianesimo: la Croce non è un incidente, ma la pienezza dell'amore.
I due camminatori ascoltano e scoprono una verità immensa: c'è la mano di Dio posata là dove sembra impossibile, proprio là dove sembrava assurdo, sulla croce. Così nascosta da sembrare assente, sta tessendo il filo d'oro della tela del mondo. Forse, più la mano di Dio è nascosta più è potente.
E il primo miracolo si compie già lungo la strada: non ci bruciava forse il cuore mentre ci spiegava le Scritture?
Trasmettere la fede non è consegnare delle nozioni di catechismo, ma accendere cuori, contagiare di calore e di passione chi ascolta. E dal cuore acceso dei due pellegrini escono parole che sono rimaste tra le più belle che sappiamo: resta con noi, Signore, rimani con noi, perché si fa sera. Resta con noi quando la sera scende nel cuore, resta con noi alla fine della giornata, alla fine della vita. Resta con noi, e con quanti amiamo, nel tempo e nell'eternità. No, lui non se n'è mai andato.
Lo riconobbero per il suo gesto inconfondibile: spezzare il pane e darlo. Lui che non ha mai spezzato nessuno, spezza se stesso. Lui che non chiede nulla, offre tutto di sé.
E proprio in quel momento scompare. Il Vangelo dice letteralmente: divenne invisibile. Non se n'è andato altrove, è diventato invisibile, ma è lì con loro. Scomparso alla vista, ma non assente. Anzi: «assenza più ardente presenza», In cammino con tutti quelli che sono in cammino, Parola che spiega e interpreta la vita, Pane per la fame di vita.
Forse la più bella preghiera da elevare a Dio è : «ecco io carezzo la vita perché profuma di Te!». Lungo la strada, una carezza per chi prova dolore, un boccone di pane per chi sta per venir meno, e sentiremo profumo di Te.

SECONDA DOMENICA DOPO PASQUA

Correva il detto, tempo fa, che Gesù è stato il primo socialista. E si può concordare, leggendo quello che avevano imparato da lui i suoi seguaci delle origini: la prima lettura (Atti degli apostoli 2,42-47) traccia un quadro riassuntivo della loro vita, dicendo che seguivano l'insegnamento degli apostoli, pregavano, partecipavano alla Messa e "stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno". Un bell'esempio che, se non è possibile riproporre tale e quale a milioni di cristiani sparsi nel mondo, dà tuttora da riflettere.

Oggi è la domenica "della divina misericordia", come ha stabilito il santo papa Giovanni Paolo II. Il motivo di questa intitolazione è implicito nel vangelo (Giovanni 20,19-31): manifestandosi loro risorto, Gesù dà agli apostoli un comando: "Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi". A queste parole viene spontaneo chiedersi: mando dove? A fare che cosa? La risposta porta a scoprire il senso della Chiesa: Gesù l'ha voluta, per annunciare a tutti gli uomini, di tutti i tempi, la sua morte e risurrezione; vale a dire, la salvezza da lui compiuta, perché gli uomini non rimangano prigionieri della morte spirituale. Di qui le parole seguenti: "Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati". Li manda dunque a proclamare la sua infinita misericordia. Mistero profondo, e tremenda responsabilità! Dio ha voluto aver bisogno di uomini per raggiungere gli altri uomini; di più, ratifica in anticipo le loro decisioni. E' pur vero che assicura loro lo Spirito Santo, cioè la costante assistenza divina: ma il pensiero che la misericordia di Dio si consegna in fragili e indegne mani umane, fa tremare le vene e i polsi di chi è chiamato ad amministrarla.


Il brano dice anche qual è la condizione per fruire della misericordia divina. L'evangelista dichiara di aver scritto "perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome". E poco prima, narrando il celebre episodio dell'incredulità di Tommaso, invitato dal Risorto a toccare le ferite per cui era morto, del Risorto riferisce le consolanti e insieme inquietanti parole: "Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto". 'Perché crediate', 'Quelli che hanno creduto'... la fede, dunque, è la condizione per essere perdonati e "avere la vita".


Tra "quelli che non hanno visto" e tuttavia sono invitati a credere siamo anche noi. L'episodio di Tommaso ci riguarda, ci coinvolge, porta a interrogarci: credo, io, che Gesù non è soltanto un uomo vissuto duemila anni fa, ma è, oggi e sempre, il Cristo salvatore, il Figlio di Dio che interpella me, personalmente me, e mi dichiara beato se lo riconosco? Io non ho visto, non ho toccato: posso nondimeno fidarmi di quanto è stato scritto e viene continuamente annunciato? Posso dirmi davvero cristiano, malgrado i miei dubbi, le mie oscurità, le mie infedeltà?


 Tali domande, una persona ragionevole se le porta dentro per tutta la vita, perché la fede non è la matematica o la geografia, in cui tutto si può dimostrare. La fede non è neppure un "pacchetto" di cose acquisite una volta per tutte; oscilla: ora cresce, ora cala; può raggiungere vette sublimi come nei martiri, può sembrare assente come in chi si dichiara ateo; va in crisi di fronte alle ingiustizie, si irrobustisce al pensiero di quanto sarebbe bello il mondo se tutti ne seguissero i dettami; si affievolisce quando la si trascura, si rafforza quando se ne approfondiscono i contenuti. In nessuno la fede è mai del tutto assente, né mai raggiunge il massimo possibile; e allora ciascuno può sempre ricordare quell'uomo interpellato un giorno da Gesù e far propria la sua risposta: "Io credo, Signore, ma tu aumenta la mia fede!"

PASQUA

L'apostolo che ha scritto il Vangelo secondo Giovanni, nel brano di oggi (20,1-9) parla di sé, umilmente in terza persona (si designa come "il discepolo che Gesù amava"), per offrirci la sua testimonianza su quanto ha visto all'alba del terzo giorno dalla sepoltura del Maestro. Avvisati dalla Maddalena che il sepolcro era vuoto, lui e Pietro vi si recano di corsa; egli, più giovane, arriva prima, ma per rispetto verso l'altro aspetta che sia lui a entrare. Questi nota i teli in cui il corpo del Maestro era stato avvolto, e solo allora "entrò anche l'altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti". Vide e credette che, come era stato preannunciato, Gesù era risorto: e ben presto lui e gli altri apostoli lo avrebbero accertato concretamente, nelle sue diverse manifestazioni che consentirono loro di vederlo, toccarlo, ascoltare le sue ultime parole, con l'invito ad andare ad annunciarlo a tutti.
Sulla loro testimonianza, pur senza vedere anche noi crediamo, e oggi lo celebriamo. E' Pasqua! Il lungo cammino della quaresima, conclusa dai riti particolari della Settimana Santa, sfocia oggi nella celebrazione di Gesù, risorto dai morti. Quanti pensieri affollano la mente, quante cose si potrebbero dire in proposito: e non stupisce, se si pensa che questo è l'evento fondante della fede cristiana. E' la fede che perdura da duemila anni ed è attualmente la più diffusa, con centinaia di milioni di aderenti sparsi nel mondo intero. E' la fede che più di ogni altra forza ha plasmato la nostra civiltà: tra l'altro abolendone la schiavitù, in nome della suprema dignità dell'uomo; affermando il valore della coscienza individuale; avviando l'idea della scuola per tutti, "inventando" gli ospedali, introducendo concetti e pratiche come quelli della solidarietà e del volontariato (due termini in cui si traduce la basilare legge cristiana della carità): E' la fede da cui sono scaturite innumerevoli e splendide opere d'arte; la fede capace di dare tanta forza da affrontare il martirio. Tutto questo, e tanto altro, ha generato la Pasqua.
Volendo soffermarsi su un aspetto che tocca tutti, si può considerare che la Pasqua fa riflettere sull'eterno e comune dramma vita-morte. Un uomo, in modo esplicito o confusamente istintivo, non può evitare di interrogarsi prima o poi sull'enigma costituito da lui stesso. Ce lo chiediamo tutti: chi siamo? Da dove veniamo, a che scopo viviamo, perché moriamo? E con la morte tutto finisce, o c'è qualcosa, dopo? Non sono domande retoriche o astratte speculazioni filosofiche, perché ad esse si lega il nostro vissuto quotidiano, le nostre scelte, la speranza e l'angoscia, le ragioni profonde del gioire così come le inquietudini e le segrete paure che travagliano da sempre l'umanità.
Ebbene, la festa di oggi dà una risposta chiara: la si trova riflessa come in uno specchio nella persona e nella vita di Gesù morto e risorto; egli è, per così dire, il prototipo esemplare dell'uomo come il suo Creatore l'ha pensato. Egli è il Figlio di Dio, ma è anche uomo, e come tale ha sperimentato al pari di tutti la gioia e il dolore, ma sempre nella consapevolezza di essere amato da Colui che gli preparava un futuro di gloria, di piena e definitiva vittoria sulla più angosciante delle prospettive, la morte. L'uomo Gesù è vissuto facendo propria l'ottica del Padre (il "Padre suo e Padre nostro": così l'ha chiamato), impostando la vita terrena non come un'affannosa ricerca di sé, del proprio benessere, ma come un dono da elargire in fraterna amicizia con tutti, nella prospettiva del ritorno "a casa".
Quella "casa" che ora l'accoglie attende ciascuno di noi, anche noi figli di Dio. L'importante è non chiudersi agli altri, per poi piangere di solitudine; non tenere ostinatamente chiusi gli occhi, per poi lamentarsi del buio.